Qualche giorno fa papa Francesco ha espresso una «doppia preoccupazione: nel presente come aiutare soprattutto i più deboli; per il futuro in che modo uscire rafforzati nella solidarietà, perché da questa crisi emerga un “di più” di fraternità a livello globale». Coniugando empatia per chi soffre oggi e maggiore solidarietà domani, Francesco fa emergere il legame che unisce le sfide del presente e quelle del futuro. È un legame confermato anche dallo scambio di aiuti tra Paesi diversi, una sorta di prova generale delle relazioni internazionali dopo questa pandemia. All’Italia sono arrivati aiuti dall’Unione Europea e altri da Germania, Francia e Spagna (a loro volta colpite duramente): sono probabilmente più di quelli che le preoccupazioni di questo momento, iniziali errori di comunicazione e radicati, reciproci tic polemici ci fanno percepire, perché – nonostante esitazioni e resistenze – qualcosa di importante in Europa si sta ancora muovendo verso una maggiore condivisione. Altri aiuti sono arrivati, fraternamente, dalla piccola Albania, espressione di una generosità molto apprezzata. Altri ancora dalla Russia e dalla Romania e, poi, dalla Polonia, dalla Svizzera.
Anche la Cina si è mossa. Oltre a un team di esperti, molto materiale sanitario è arrivato da questo Paese anche in Italia, in parte a pagamento, in parte come donazione gratuita. C’è stata anche una significativa novità: molti cattolici cinesi (come padre Zhang di Jinde Charity e i vescovi Dang Ming–yan di Xian, Shen Bin di Haimen e Li Shan di Pechino) hanno potuto inviare direttamente mascherine, tute protettive e altro materiale sanitario alla Santa Sede, che ne ha donato una parte all’Italia, e a organizzazioni cattoliche italiane (Diocesi di Roma, Caritas ambrosiana, Comunità di Sant’Egidio...). Anche la Croce Rossa cinese ha inviato materiale sanitario alla Farmacia Vaticana: anche questa è una significativa prima volta. La Santa Sede ha apprezzato il «gesto generoso» e espresso «riconoscenza ai vescovi, ai fedeli cattolici, alle istituzioni e a tutti gli altri cittadini cinesi per questa iniziativa umanitaria », anche a nome del Papa. La Cina è preoccupata di un atteggiamento negativo nei suoi confronti diffuso in diversi Paesi. Anche in Italia, soprattutto nella fase inziale della pandemia, ci sono stati episodi di intolleranza e razzismo verso cinesi che non avevano e non hanno alcuna responsabilità in quanto sta accaden- do. Gli aiuti che arrivano attualmente dalla Cina costituiscono un gesto di distensione ed esprimono volontà di collaborazione. Il presidente Xi Jinping ha proposto di affrontare insieme le conseguenze del Covid-19, sottolineando che il virus non conosce confini e distinzioni etniche: «È il comune nemico dell’umanità, e la comunità internazionale può sconfiggerlo solo attraverso uno sforzo comune». È un’apertura su cui gli altri Paesi si stanno interrogando.
Finora, la risposta americana è stata sostanzialmente negativa. All’inizio di marzo, Washington ha rafforzato il suo ac- cordo con Taiwan in funzione anti-Pechino. Sul piano della propaganda, Trump e i suoi collaboratori e sostenitori mediatici continuano a parlare di «virus cinese» e la Cia accusa Pechino di essere responsabile della diffusione nel mondo del Covid-19. Altri rilanciano addirittura le fake news sul «laboratorio militare» cinese che lo avrebbe «fabbricato». Dalla Cina si risponde attribuendo la diffusione del virus a una squadra sportiva americana che ha visitato l’Hubei lo scorso ottobre (anche se l’ambasciatore cinese a Washington ha provato a spegnere l’incendio definendo «pazzo chi pensa che il coronavirus sia stato prodotto in un laboratorio militare americano »). Insomma, il conflitto in corso ormai da tempo continua e blocca le possibilità di collaborazione tra questi due Paesi anche dopo il coronavirus. Da parte americana, il blocco non è attribuibile solo a Trump e non riguarda solo la Cina. L’ostilità verso questo Paese ha radici bipartisan nella classe dirigente americana, convinta che la collaborazione internazionale e le istituzioni multilaterali abbiano favorito troppo la Cina: ieri il Wto (Organizzazione mondiale del commercio), oggi l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), oltre all’Onu, verso cui l’atteggiamento americano è freddo da tempo.
La grave situazione creata dal coronavirus, tuttavia, pone a tutti domande nuove. Si paragona spesso la crisi attuale a una guerra, ma un vero clima di guerra è quello che si respirava fino a poche settimane fa e nel mondo molti conflitti continuano anche in tempi di pandemia: Libia, Siria, Yemen, Afghanistan... È la «terza guerra mondiale a pezzi» di cui ha parlato tante volte papa Francesco e che riflette un deterioramento nelle relazioni internazionali e un logoramento delle organizzazioni multilaterali. Oggi, invece, il virus che ha colpito gran parte del mondo crea una situazione che, per certi versi, è il contrario di una guerra, quando ci sono popoli che si considerano nemici e Stati che si combattono. In questo caso, invece, tutti i popoli hanno lo stesso nemico e per combatterlo gli Stati sono spinti a collaborare fra loro. Più che in una situazione di guerra, quando ciò che conta è schiacciare il nemico, stiamo andando verso un “dopoguerra”, in cui è necessaria la collaborazione e svantaggioso il conflitto. È evidente oggi il forte interesse di tutti i Paesi del mondo a studiare insieme il Covid-19, individuando rimedi efficaci in breve tempo e a basso costo, nel tentativo anche di evitarne una diffusione in Africa e altrove che sarebbe disastrosa per tutti. Altrettanto evidente è la necessità di un grande sforzo congiunto per far ripartire l’economia mondiale.
La contrapposizione tra Cina e Stati Uniti costituisce però un ostacolo su questa strada. Può l’Europa fare qualcosa per favorire una maggiore collaborazione internazionale? La situazione creata dalla pandemia spinge a guardare soprattutto tre grandi blocchi: la Cina, gli Stati Uniti e l’Europa. E la storia spinge quest’ultima a operare per il «di più di fraternità a livello globale» di cui c’è grande bisogno. Le radici dell’Unione Europea, infatti, affondano proprio nella situazione di un altro dopoguerra, quello dopo il Secondo conflitto mondiale. Allora, quando la ricostruzione era un’urgenza per tutti, furono poste le fondamenta di un nuovo ordine internazionale e furono creati nuovi organismi come l’Onu, la Fao, la Banca mondiale per realizzarlo. Malgrado il lungo inverno dalla “guerra fredda”, continuiamo ancora in parte a beneficiare dei frutti della collaborazione di allora. Anche l’unificazione europea è iniziata grazie a quel contesto e da allora gli europei hanno goduto ininterrottamente di una situazione di pace che ha favorito pure quella nel resto del mondo.
Gli Stati europei sono oggi molto impegnati ad affrontare la sfida di una maggiore solidarietà interna. Ma non dovrebbero trascurare ciò che possono fare per il mondo nel suo complesso, che è poi un modo per aiutare anche se stessi. Potrebbero, ad esempio, cogliere l’occasione per gettare, insieme a Stati Uniti, alla Cina e a tutti gli altri, le basi di un nuovo ordine internazionale, in grado di fermare la «terza guerra mondiale a pezzi» e molte sanguinose guerre locali, come ha chiesto il segretario generale dell’Onu Guterres e come invoca il Papa, facendo «ripartire il mondo» dopo il coronavirus.