"Abbiamo vissuto in fenditure della storia: ci diede riparo ciò che non chiude, totalmente, mai. Per l’ultimo giorno volevamo le visioni di cui ci siamo nutriti nell’esilio"
Ernst Bloch a Ingeborg Bachmann dopo la sua visita al ghetto di Roma
Nei patti, l’essenziale è la fede nella fedeltà dell’altro. È più fondamentale della nostra propria fedeltà. Un patto spezzato può sperare di risorgere se, e fino a quando, chi ha tradito crede che l’altra parte è ancora fedele, spera che dall’altro capo della corda che ci lega e che io ho mollato ci sia una mano forte che tiene ancora. Tutto finisce davvero quando dall’altro capo della corda non c’è più nessuno – o quando crediamo che sia così. Nella Bibbia la fede in Dio è la speranza che da qualche parte nel cielo ci sia una roccia salda che non ci fa sprofondare dentro le nostre infedeltà. Da qui nasce la preghiera più bella che si può alzare dalle crisi della fede e dei nostri rapporti primari: «Tu, almeno tu, non mollare; resisti, continua a credere in quel patto che io, per fragilità o colpa, non sono stato capace di custodire. Sii fedele anche per me». In latino corda, fede e fiducia sono la stessa parola: fides.
«Nell’anno primo di Dario (...) io, Daniele, tentavo di comprendere nei libri il numero degli anni di cui il Signore [YHWH] aveva parlato al profeta Geremia e che si dovevano compiere per le rovine di Gerusalemme, cioè settant’anni» (Daniele 9,1-2). Nel libro di Daniele entra Geremia, un profeta vissuto alla vigilia dell’esilio babilonese, che aveva profetizzato: «Tutta questa regione sarà distrutta e desolata e queste genti serviranno il re di Babilonia per settanta anni» (Ger 25,11). Una profezia di durata che ha fatto lavorare molto i rabbini e gli esegeti antichi e moderni. Siamo più o meno dentro i settant’anni profetizzati da Geremia se iniziamo a contare gli anni dell’esilio dalla distruzione del tempio di Gerusalemme (il 587) e fissiamo la sua fine nella ricostruzione del tempio (il 516). Ma – e questo è quanto più preme ai profeti – quando l’autore del libro di Daniele scriveva (II secolo a.C.) il suo popolo viveva dentro un altro "esilio" e si chiedeva: fino a quando? Per sperare non bastava ricordare la verità della fine del primo esilio di Babilonia, era necessario che la fine di quel grande esilio diventasse la caparra per la fine dell’oppressione di Antioco IV Epifane. Perché quando si vive una grande crisi il ricordo delle liberazioni del passato aumenta solo la sofferenza del presente, a meno che quell’antica storia non diventi risorsa per rinascere ora. Nessun passato ricordato salva se non diventa risorsa per liberare il presente e generare un futuro buono. Senza questa dinamica passato-presente-futuro, con il suo fulcro sul presente, non capiamo né la profezia né la Bibbia. Da qui la domanda di Daniele: cosa dice a noi quell’antica profezia di Geremia sulla fine dell’esilio mentre oggi in un altro esilio speriamo e attendiamo una liberazione che non arriva?
Questa domanda crea l’ambiente per la grande preghiera di Daniele, uno dei brani più belli e profondi del suo libro. Prima però Daniele ci dona anche un insegnamento sulla preparazione alla preghiera: «Allora volsi la mia faccia verso il Signore Dio alla ricerca di un responso con preghiera e suppliche, con il digiuno, veste di sacco e cenere e feci la mia preghiera e la mia confessione al Signore, mio Dio» (9,3-4). Innanzitutto lo sguardo: volsi la mia faccia al Signore. Orientai gli occhi, guardai oltre me, forse verso Gerusalemme. Pregare è cambiare sguardo, è imparare a guardare diversamente. La preghiera biblica non inizia guardando dentro in cerca del proprio vero io o della propria interiorità profonda – una ricerca quasi sempre vana perché non fa altro che aumentare quell’io che si vorrebbe ridurre: è anche questa la trascendenza del Dio biblico. Alla preghiera ci si prepara invece guardando fuori, cercando un altrove. Non si comincia chiudendo gli occhi, ma aprendoli per guardare fuori di noi e più lontano. La preghiera biblica è estroversa, è un ribaltamento dell’anima indigente in cerca di una luce che arriva da fuori e che poi scompare lasciandoci di nuovo mendicanti di luce e di cielo. Dobbiamo ringraziare ogni giorno la Bibbia per averci custodito questo sguardo infinito e questa linea su un orizzonte più profondo perché svuotato dai nostri idoli materiali e spirituali, che ha consentito, in un altro giorno, di vedere l’infinito dentro un sepolcro di nuovo vuoto.
Quindi «il digiuno, veste di sacco e cenere». Dopo gli occhi è tutto il corpo a muoversi – lo sguardo è già corpo. La preghiera è esperienza integrale, è postura antropologica, la prima "bocca" della preghiera è il corpo tutto intero. Digiuno e cenere non sono solo segni di penitenza e pentimento; sono anche e soprattutto tempo (digiuno) e spazio (veste), le due dimensioni fondamentali della vita. Queste note dell’umanesimo biblico noi le abbiamo dimenticate, e quindi abbiamo dimenticato la preghiera. Solo alla fine giunge la parola, come epifania di uno spirito-carne: «Signore Dio, che sei fedele all’alleanza..., noi abbiamo peccato e abbiamo operato da malvagi e da empi, siamo stati ribelli! Non abbiamo obbedito ai tuoi profeti. (...) A te conviene la giustizia, o Signore, a noi la vergogna sul volto» (9,4-7). La sventura del popolo è la giusta punizione per l’infedeltà, la pena per aver tradito l’alleanza trasmessa dai profeti: quindi il castigo è meritato. È questo un esempio della cosiddetta "teologia retributiva": ciò che ci accade non è altro che la conseguenza giusta delle nostre azioni. Dio è giusto, e perché è giusto noi siamo puniti. Una visione della religione molto comune nell’antichità, che ritroviamo anche in un’anima della Bibbia. Questa teologia (elementare) ha però nella Bibbia una innovazione che diventa una risorsa per non rendere eterna la punizione: siccome Dio è misericordioso e fedele al suo patto, se noi ci pentiamo Dio ci riscatterà. Essendosi legato al popolo con un patto di reciprocità, Dio ha limitato la sua libertà perché non può non perdonarci se noi ci pentiamo sinceramente. È, forse, questa fede nella fedeltà eterna di YHWH una delle dimensioni della Bibbia che ancora oggi ci sorprendono e ci commuovono.
La teologia retributiva aveva però un grande limite empirico (tra gli altri): come spiegare la continuazione dell’esilio e della sofferenza nonostante il pentimento sincero del popolo? La strada più semplice, ma anche più banale, consisteva nel convincersi che il pentimento non era stato sincero. Noi continuiamo a essere i peccatori di sempre e quindi Dio continua a punirci. Questa via-scorciatoia funziona sempre, perché l’uscita definitiva dal peccato non fa parte del repertorio umano e i peccati si trovano sempre e ovunque. La via della conversione imperfetta è tanto facile quanto perversa. È una gestione dissipativa e degenerativa della religione perché, alimentandosi di una fonte di energia sempre abbondante e a buon mercato (le colpe), trova sempre giustificazioni della propria sventura, mai le risorse per uscirne. Un’altra via efficace poteva essere l’abbandono della teologia retributiva, che troviamo in alcuni testi profetici e sapienziali (Giobbe) e nei Vangeli (meno nella tradizione cristiana).
La teologia escatologica e apocalittica trovò una nuova soluzione alla non-fine della sventura. È ancora l’angelo Gabriele a rivelarla a Daniele. Questa volta l’angelo-interprete non spiega una visione o un sogno, dona una intuizione, fa un discorso. Nella Bibbia la parola della Scrittura vincola anche le parole degli angeli: la possono spiegare ma non la possono cambiare – è anche questa una radice della superiorità della parola biblica sulle visioni private dei mistici: per quanto santa sia una persona e per quanto straordinarie siano le sue visioni-rivelazioni, il test infallibile è la coerenza con la Scrittura. Nel libro di Daniele si usa la parola "YHWH" solo una volta, ed è in questo capitolo (v. 2), per qualificare la parola di Geremia, forse per dirci: "Per quanto riguarda le mie visioni spero sia stato Dio a inviarmele, ma non ho dubbi che ci sia il Dio vero all’origine della parola dei profeti". La stima della Bibbia per i profeti è immensa.
Stupenda è la conclusione della preghiera: «Signore, ascolta! Signore, perdona! Signore, guarda e agisci senza indugio, per amore di te stesso, mio Dio» (9,19). In questa preghiera ritroviamo una costante della preghiera biblica: «per amore di te stesso», o «per amore del tuo nome». Una espressione che amo molto, perché rivela qualcosa di intimo anche della vita umana. Per ricominciare dopo un fallimento di un rapporto, la speranza più grande sta nel "nome" dell’altro. Quando dopo molto dolore ci ritroviamo un giorno e ci guardiamo negli occhi, "ricordati di te" è la prima parola che dovremmo ripeterci reciprocamente – e poi provare a risorgere insieme.
«Mentre io stavo ancora parlando e pregavo... Gabriele volò veloce verso di me, mi rivolse la parola e mi disse: "Daniele... sta attento alla parola e comprendi la visione: Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa città per mettere fine all’empietà, mettere i sigilli ai peccati, espiare l’iniquità, stabilire una giustizia eterna, suggellare visione e profezia e ungere il Santo dei Santi» (9,20-24). Gabriele è il primo angelo descritto nel gesto del volo. Spiega a Daniele che i settant’anni di Geremia vanno letti come settanta settimane, cioè 490 anni. L’angelo, per dare un senso a una persecuzione e una ingiustizia che duravano ben oltre i settant’anni dell’esilio babilonese, non cambia la parola di Geremia ma la interpreta (con creatività). Per dirci che la giustizia eterna non è ancora arrivata ma arriverà tra poco (i 490 anni stavano per compiersi nel tempo di Daniele). E quindi tutta la sofferenza per la fedeltà e per la giustizia non è sprecata, perché il Regno dei cieli verrà e il Figlio dell’uomo riscatterà ogni goccia di verità e di amore. La nostra storia di dolore avrà il suo Goèl, la terra vedrà avverarsi la promessa. È la speranza del non-ancora che protegge l’umanesimo biblico dalla grande illusione.
La persecuzione di Antioco IV del tempo di Daniele terminò, ma poi venne quella dei romani che violarono e distrussero il tempio. Poi è arrivato Gesù, ma anche nel tempo della Chiesa le persecuzioni e le ingiustizie non sono mai finite. Sono passati molte volte 490 anni ma i peccati non sono ancora "sigillati" e quel Regno di "giustizia eterna" sembra ancora molto lontano.
La Bibbia ha tenuto viva la speranza non chiudendo la porta a un futuro diverso. La tiene aperta da tre millenni, resistendo ai forti venti contrari della storia e ai venti di vanitas del nostro cuore che vorrebbe smettere di credere, di sperare e amare quando le settanta settimane di anni non finiscono mai: «Tre sono le cose che rimangono: la fede, la speranza e l’agape» (1 Cor 13,13).
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