"Stracciavano i libri della Legge che riuscivano a trovare e li gettavano nel fuoco. Mettevano a morte, secondo gli ordini, le donne con i bambini appesi al collo e con i familiari... Tuttavia molti in Israele preferirono morire pur di non contaminarsi con quei cibi e non disonorare la santa alleanza".
Primo libro dei Maccabei, 1,56-63
La maggior parte delle parole bibliche sono lontane dal nostro mondo, dal nostro linguaggio, dai nostri codici simbolici, dalla descrizione che facciamo dei problemi della nostra vita. Eppure quando iniziamo a frequentarle intuiamo che sono anche il nostro ambiente spirituale, ci sentiamo a casa. Perché avvertiamo che prima delle parole che ci raccontano fatti e sentimenti ci sono i fatti e i sentimenti espressi e raccontati dalle parole. Fatti e sentimenti di uomini e donne come noi, lontani, certo, ma anche molto vicini, di certo più vicini delle loro parole. Le parole nella scrittura non sono i suoi unici protagonisti. Prima ci sono fatti, esperienze, ci sono persone, c’è Dio. La sfida di ogni lettore e commentatore della Bibbia sta nel provare ad arrivare alle parole, toccarle, capirle, amarle, accoglierle così come sono, e poi farsi portare da loro ai fatti e alle esperienze che le hanno precedute. Quando invece le parole diventano l’unico e ultimo incontro, le parole da porta diventano muro, che invece di aprire il discorso sull’uomo e su Dio lo chiudono – è anche questa dimensione della parola e delle parole che rende possibile e legittimo tradurre le poesie in lingue molto diverse da quella nella quale furono scritte dai poeti: prima delle parole ci sono emozioni, sentimenti, c’è un’anima che possiamo capire in tutte le lingue del mondo.
Le parole dei Vangeli, ad esempio, sono la presenza vera di Gesù più vicina ai fatti, ma non esauriscono la persona di Gesù né l’esperienza della Chiesa primitiva. La Scrittura contiene la Legge e i profeti, ma non li esaurisce, e così ci ricorda anche che noi siamo di più della somma di tutte le nostre parole e di tutte le parole della Terra. La parola è la casa della realtà. Quindi non è la realtà: è solo la dimora, non i suoi abitanti. Per non incontrarci soltanto con la casa della rivelazione biblica ma con la rivelazione stessa, occorre farla uscire di casa, chiederle di disvelarsi, scovarla dal suo nascondiglio, toglierle le catene e vederla uscire dalla caverna. Una casa da cui non si può uscire si chiama prigione. La parola si apre se la liberiamo dalle parole. Leggiamo il Vangelo di Luca (13,9-1), sentiamo subito di essere noi quel fico sterile, e proviamo l’angoscia del giudizio ormai imminente. Poi entriamo dentro quella parabola, e ci accorgiamo che sono duemila anni che il fico ha un altro anno. La Bibbia, tutta la Bibbia, è il "vignaiolo" che ogni giorno implora per noi un anno in più.
Il libro di Daniele è uno splendido palazzo, pieno di colori, di ambienti, di balconi e di giardini, ma con pareti molto spesse. La sua complessità emerge subito già dagli elementi esterni e redazionali. È un libro che il canone latino inserisce tra i profeti dopo Ezechiele e quello ebraico mette tra i ketubim, cioè gli scritti agiografi, come il libro di Ester. È narrativamente collocato nel contesto dell’esilio babilonese (VI sec a.C.) ma è stato scritto, o quanto meno terminato, nel II secolo a.C.. È redatto in tre lingue, ebraico, aramaico e greco. Per alcuni è un libro apocalittico per altri no; per alcuni è libro profetico, per altri figlio della tradizione sapienziale; per qualcuno è libro essenziale per comprendere l’intero messaggio biblico, per qualcun altro solo un bel racconto edificante; alcuni pensano che i passi dei Vangeli influenzati da Daniele siano i migliori, altri i peggiori.
Il libro venne attribuito idealmente a Daniele, un nome che significa "chi mi giudica è Dio", un personaggio mitico che ritroviamo in Ezechiele, come un antico e misterioso uomo giusto: «Anche se in quella terra vivessero questi tre uomini: Noè, Daniele e Giobbe, essi con la loro giustizia salverebbero solo sé stessi, oracolo del Signore Dio» (Ez 14,14). Se prendiamo sul serio il riferimento narrativo (non storico) a Daniele nel libro di Ezechiele, la vicinanza con Giobbe e Noè ci può suggerire alcune prime coordinate del libro – nella Bibbia difficilmente una parola è scelta a caso, soprattutto se è un nome di persona. Giobbe e Noè sono chiamati "giusti", una parola che nella Bibbia dice molto, quasi tutto per qualificare moralmente una persona. Non tutti i protagonisti della bibbia possono essere chiamati giusti, neanche i primi protagonisti (Davide o Giacobbe, per esempio). Anche Daniele si rivelerà un uomo giusto. Noè e Giobbe hanno affrontato un grande pericolo e sono usciti salvi, sono usciti dalla loro fossa – come Daniele. Incontrare il nome di Daniele significa allora sapere che ci attende il racconto di un giusto che, in un diluvio personale e collettivo, sta per iniziare una storia di salvezza. Il libro di Daniele è stato infatti scritto mentre il popolo si trovava, come Giobbe, su un mucchio di spazzatura, e cercava di capire il senso religioso di quella grande sventura: le tremende persecuzioni di Antioco IV Epifane (175-164 a.C.), narrate dai Libri dei Maccabei. Siamo quindi in pieno periodo ellenistico, quando nell’aria medio-orientale si diffondono la lingua, la cultura, i costumi e la religione dei greci. Il popolo di Israele ebbe un rapporto ambivalente con l’ellenismo. Una parte del popolo, forse la maggioranza, subì il fascino di quella cultura forte e della sua saggezza. Certamente ne restarono ammaliati alcuni dei sacerdoti giudei di Gerusalemme – Gesù, un fratello di Onia III il sommo sacerdote di Gerusalemme, cambiò il nome in Giasone, e un altro prese il nome di Menelao.
Un libro scritto in un tempo tremendo per Israele e quindi ambientato in un altro tempo tremendo, l’esilio babilonese. Un contesto storico che spiega anche la vena apocalittica ed escatologica che attraversa il libro. L’apocalisse, da "rivelazione" (di misteri e di cose nascoste), è una espressione del genere letterario dell’escatologia, cioè dell’interesse per la fine, per gli ultimi tempi della storia della salvezza e della salvezza umana. Ha a che fare con il destino ultimo, con la decifrazione di segni che annunciano prima distruzioni e una fine e poi una novità che dovrà arrivare: quella del "Figlio dell’Uomo" e del "giorno del Signore", dovrà iniziare un altro Regno. Elementi apocalittici erano presenti anche nei profeti maggiori, in Isaia (24-27) ed Ezechiele (38-39) soprattutto, e in molti dei profeti cosiddetti minori. Il II secolo vide però una ricchissima e originale stagione apocalittica che confluirà soprattutto nella letteratura apocrifa dell’Antico Testamento, di cui i Libri di Enoc sono la parte più conosciuta. Daniele ha elementi comuni con questa letteratura, ma ha anche qualcosa di nuovo e di diverso.
In comune con le apocalissi ci sono la persecuzione, il tentativo di proteggersi dall’invasione della cultura greca, il bisogno di non perdere l’anima e quindi la fede nel proprio Dio diverso, YHWH, di credere ancora all’alleanza e alla promessa. Il popolo era minacciato dalle persecuzioni e, soprattutto, dall’imperialismo culturale che stava facendo dimenticare un’altra storia e un altro Dio. Questi testi nacquero infatti da comunità escatologiche e messianiche che cercarono rifugio in luoghi protetti, che mentre fuggivano dalle persecuzioni cercavano un nuovo fondamento della loro fede. Mentre la terra promessa era occupata dall’ennesimo impero, il tempio di Gerusalemme riempito da nuovi dei e tra questi l’altare di Zeus, quelle comunità oppresse di fedeli sentivano il dovere di cercare nuovi racconti, una nuova narrativa, una nuova-antica fede. Nell’esilio babilonese gli scribi ebrei iniziarono a scrivere i libri della storia della salvezza (Genesi, Esodo ...) e alcuni profeti grandissimi scrissero i loro libri (Ezechiele e il Secondo-Isaia). Quattro secoli dopo, nell’occupazione ellenistica e nella persecuzione di Antioco, altri scribi scrissero altri libri, e in un tempo ormai senza profeti "crearono" un loro profeta perché potesse dire al popolo parole simili a quelle che lo avevano salvato lungo i fiumi di Babilonia: e nacque Daniele, un libro della resistenza civile, in questo simile all’Apocalisse del Nuovo Testamento. Ecco perché «solo i sopravvissuti della Shoah, gli scampati a Hiroshima, i veterani del Biafra, le vittime delle tante tragedie del Medio Oriente potrebbero recepire la testimonianza di Daniele» (W.S. Towner, "Daniele"). E oggi gli sfollati dell’Ucraina, e tutti coloro che cercano un altro futuro migliore in un presente tremendo, fuggendo con "i figli appesi al collo".
L’apocalittica fu anche una risposta alla delusione religiosa e politica, fu elaborazione del lutto di un popolo che non vedeva realizzarsi la grande promessa, fu la possibilità di poter continuare a sperare, di cercare un senso al grande male, loro e del mondo. Inoltre, evocare i nomi dei profeti, scrivere di visioni, di cielo e sogni, di angeli e demoni, era anche una polemica verso una religione ebraica tornata sacerdotale, incentrata su sacrifici e liturgie senza profezia. Si può cambiare questo mondo sognandone un altro. Quelle piccole comunità di resistenti, fragili e vulnerabili, forse gruppi di Asidei (gli Hassidim: i pii), qualche decennio più tardi diedero vita alle comunità di Esseni, di Farisei, al movimento del Battista e anche a quello di Gesù – il libro di Daniele è stato trovato in molte copie nelle grotte di Qumran.
C’è infine un elemento stupendo. La comunità che scrisse Daniele, diversamente dai Maccabei, erano nonviolente. Non presero le armi contro i re stranieri. Abbracciarono la penna e l’anima: in quella persecuzione pregarono e scrissero. La preghiera collettiva che fiorisce in scrittura è sempre stata un’alta forma di resistenza nonviolenta, diversissima ma non meno efficace di quella della armi. Il libro di Daniele ci dice che visioni, angeli, sogni, numeri, draghi e storie di ragazze violentate (Susanna) possono diventare altri strumenti per cacciare via dittatori stranieri e per difendere una storia e un’identità nazionale. Antioco IV e i suoi colleghi sono passati, con la loro cattiveria insieme alle armi dei Maccabei. Le preghiere e le parole di quelle comunità nonviolente di resistenza sono invece rimaste. Sono arrivate fino a noi, e da oltre due millenni sono sentinelle di un’alba che arriverà perché non può non arrivare. Che deve arrivare presto, che deve arrivare oggi. La resistenza dell’anima non è fuga dalla storia, è generare diversamente un futuro migliore del presente perché nato dalla mitezza forte di una resistenza di pace. Beati i miti, erediteranno la terra.
Chissà quanti oggi nei rifugi, nei campi, nei bunker, sul fronte ucraino-russo, stanno generando, con l’anima e con la penna, una nuova terra: «Ma nel mio cuore nessuna croce manca. È il mio cuore il paese più straziato» (Giuseppe Ungaretti).
l.bruni@lumsa.it