Io e Pietro Mennea, così vicini per essere stati due atleti, gli ultimi due campioni olimpici – italiani e bianchi – della velocità, eppure così distanti, per ragioni caratteriali, ma anche per una diversa visione della vita e dello sport. Io sono un platonico disincantato, Pietro era un aristotelico indefesso. Per me fare atletica, gareggiare era una gioia, una forma di liberazione e di apertura al mondo; per lui un sacrificio, una prigione solitaria, una sofferenza. In Mennea ho sempre rintracciato una visione michelangiolesca, estasi e tormento. Ma nel suo caso era rovesciata, prima veniva tanto tormento e poi quel che avanzava andava a comporre un’estasi che conservava comunque la giusta dose di sofferenza. Una reazione naturale, "caratteriale", nella sconfitta, ma espressa in egual misura anche anche quando vinceva e conquistava medaglie prestigiose come l’oro di Mosca nei 200 o record duraturi come quel 19"72. Al tempo stesso non posso che provare commozione e rispetto per l’uomo, il cui percorso esistenziale e sportivo è stato un inno alla tenacia. Con il sacrificio e la forza di volontà è riuscito ad arrivare e a tagliare traguardi che molti, forse pure lui, ritenevano impensabili, anche per la sua struttura fisica. Per Mennea l’atletica era dedizione, lavoro e sforzo costante per migliorarsi e migliorare, forse anche come uomo. Per questo il successo, anche il più eclatante, non è mai riuscito a viverlo con pienezza e con gioia, ma come un prezzo alto, tassativamente pagato dopo il lungo ed estenuante sforzo compiuto. Un "Sisifo" dell’atletica, che ha avuto la fortuna di incontrare sul suo cammino un grandissimo preparatore ed eccellente motivatore come il professor Carlo Vittori. Un rivoluzionario, Vittori, che ha aperto a Mennea un nuovo orizzonte, fino ad allora sconosciuto ai velocisti: gli allenamenti alla resistenza. Un tenace per indole come Pietro sposò a pieno questa nuova metodologia, che gli consentì di innalzare notevolmente le sue prestazioni e togliersi tante soddisfazioni, con vittorie incredibili sul filo di lana. Ma il tutto è sempre avvenuto "sputando l’anima", quasi rispondendo alla necessità di doversi affermare per un riscatto personale e forse anche sociale. La sua corsa sgraziata e disperata era in fondo la metafora di un Sud che provava e prova ancora ad emergere, anche attraverso i suoi figli più talentuosi. Cambiare, sperimentando nuovi sistemi di allenamento, non gli servì comunque a modificare la sua "genetica interiore". Anche quando ha smesso di gareggiare, ha custodito gelosamente quel suo pessimismo atavico e quel senso di incomunicabilità che mal si conciliava con il mio spirito ottimista, sociale e comunicativo. Ci siamo guardati a distanza, con rispetto, consapevoli di aver scritto entrambi pagine importanti di storia dello sport, ma con grammatiche diverse.