Un operaio al lavoro (Ansa)
La lunga rincorsa si è conclusa. L’Istat ha registrato che il numero degli occupati totali in Italia ha raggiunto e superato quello di dieci anni fa, subito prima che irrompesse la devastante doppia recessione che ha spazzato via nel nostro Paese quasi un milione di posizioni lavorative. Nel decennale del crac di Lehman Brothers (15 settembre 2008), l’evento simbolo che accese la miccia dell’apocalisse prima nella finanza poi a cascata sull’economia reale, in Italia siamo tornati sopra i 23 milioni di occupati (23,4 per l’esattezza) grazie a una ripresa dell’economia modesta ma non a bassa intensità di lavoro. Dal 2013 in poi, anno dopo anno, abbiamo faticosamente riconquistato il picco occupazionale dal quale eravamo caduti quasi a precipizio.
Scomponendo il dato generale si scopre un mondo del lavoro profondamente diverso da quello pre-crisi. E l’impressione che si trae dal raffronto dei dati statistici è che una volta ripresa la vetta degli occupati ci aspettino altri sentieri impervi da percorrere. La precarizzazione dei rapporti, il boom e la persistenza di un’alta disoccupazione giovanile, anche tra i laureati, la diffusione delle basse qualifiche, i rischi legati alla crescente automazione, le incognite legate all’invecchiamento demografico, l’acuirsi del divario Nord-Sud sono alcuni dei problemi di oggi, che alimentano un clima di scarsa fiducia e incertezza. Come se dalla crisi non fossimo davvero usciti. Del resto il decennio che abbiano alla spalle ha trasformato l’economia e la produzione. Nel 2008 Amazon era ancora soprattutto una libreria multimediale, non il colosso mondiale del commercio via Internet. I riders 'telecomandati' e non garantiti del cibo a domicilio ancora non pedalavano nelle nostre città e la cosiddetta sharing economy era di là di venire. In Italia la vecchia Fiat stava ancora a Torino, non come la globalizzata Fca con domicilio fiscale a Londra, cuore a Detroit e contratto di lavoro rifatto su misura.
Più occupazione, meno lavoro. Il numero totale degli occupati nel giugno scorso ha superato di 200mila unità il picco raggiunto nel 2008 mentre il tasso di occupazione destagionalizzato è appena sotto (58,7% invece di 58,8). Nella statistica però basta avere lavorato almeno un’ora nella settimana presa in esame per essere definiti occupati e se si guarda al volume delle ore complessive lavorate a fine 2017 eravamo ancora il 6% sotto il picco pre-crisi. Ci sono quindi più persone che lavorano, ma lo fanno in media per minor tempo. Tanto è vero che gli occupati a tempo pieno alla fine dello scorso anno erano 18,7 milioni, un milione in meno di 10 anni prima. Al contrario cresce il part time, che coinvolge circa un milione di addetti in più ma è sempre meno una libera scelta del lavoratore: ad aumentare è stato infatti soprattutto il part time involontario: nel 2008 interessava poco più di un lavoratore su tre, oggi i due terzi. Intanto si è allargato l’esercito dei disoccupati: oggi sono poco meno di tre milioni di persone (pur in calo da tre anni), dieci anni fa erano 1,6 milioni: poco più della metà. Inoltre nel Sud del paese il recupero occupazionale è ancora un miraggio: ci sono oggi 260mila posti in meno del 2008.
Al lavoro coi capelli bianchi. L’effetto combinato della crisi economica, delle trasformazioni demografiche e della nuove regole pensionistiche ha notevolmente invecchiato il mondo del lavoro italiano: gli ultracinquantenni occupati oggi sono 2 milioni e mezzo in più (7,7 milioni invece di 5,2) di dieci anni fa con un tasso di occupazione è schizzato dal 47 al 60%. All’estremo opposto, nella classe di età dai 15 ai 24 anni abbiamo perso mezzo milione di occupati e tra i 25 e i 34 anni quasi un milione e mezzo. Un’ecatombe legata anche alla crisi demografica ma confermata dagli indici di disoccupazione, schizzati dal 21% al 32% tra i giovanissimi (nel 2015 aveva superato il 40%) e dal 9 al 16,5% tra i loro fratelli maggiori. L’invecchiamento della forza lavoro non è un dato senza conseguenze. Oggi non agevola la crescita della produttività, ritenuta uno punti deboli dell’Italia specialmente di fronte alle sfide della digitalizzazione dell’economia, che chiama a un continuo aggiornamento delle competenze. Per il domani genera incognite: quando nei prossimi anni i figli del baby-boom degli anni Sessanta andranno progressivamente in pensione, forse non ci saranno abbastanza giovani per sostituirli al lavoro, se non attraverso l’immigrazione. Intanto cresce il peso del lavoro delle donne, che in Italia hanno storicamente percentuali di inattività tra le più alte d’Europa. Oggi le lavoratrici sono 450mila in più del 2008 e gli uomini con un impiego sono diminuiti di quasi altrettanto. Ma il tasso di occupazione femminile ancora non raggiunge il 50% e, lungi dal favorire, scoraggia la natalità, che resta ai minimi storici.
Il lavoro fragile. Di precarietà si parla molto e il governo è intervenuto di recente con il contestato decreto Dignità. Nel decennio i lavoratori dipendenti non permanenti sono saliti a oltre 3 milioni, 700mila in più del 2008, e rappresentano ora il 13,4% del totale (dal 10% pre-crisi). Ma forse questo aumento, benché rilevante, non riesce a fotografare appieno il cambiamento. Sono i dati di flusso più di quelli totali a registrare la temperatura gelida del dopo crisi: tra i nuovi dipendenti assunti, quelli precari sono quattro su cinque. Di questo passo il naturale turn over della forza lavoro, frenato in questi anni dall’aumento dell’età pensionabile, renderà sempre più diffusa l’instabilità della condizione lavorativa. Senza contare che anche il mondo del lavoro autonomo esce fortemente ridimensionato dalla crisi: con un crollo di circa 600mila occupati e una maggiore precarietà anche nel modo delle professioni. I governi della scorsa legislatura hanno speso molti soldi per incentivare il lavoro stabile ma i risultati sono stati modesti: dopo la fiammata legata alla maxi-decontribuzione del 2015, la quota dei contratti permanenti ha ricominciato a calare. Una tendenza che anche i nuovi sgravi attivati dal gennaio scorso fanno fatica contrastare. Con l’introduzione del Jobs Act tre anni fa la flessibilità del lavoro è aumentata anche per i nuovi assunti a tempo indeterminato, rimasti senza la vecchia tutela dell’articolo 18. L’obiettivo del governo era di favorire le assunzioni stabili rendendole meno vincolanti per le imprese e attrarre più investimenti. Ma le aziende hanno continuato a puntare soprattutto sui contratti a termine, che erano già stati liberalizzati. Mentre la maggiore fragilità degli impieghi non è stata compensata finora dal rafforzamento delle politiche attive di ricollocamento.
Meno industria, più servizi. La tendenza non è nuova ma nel decennio ha accelerato. I lavoratori dell’industria dal 2008 sono diminuiti di oltre 900mila unità, di cui quasi la metà nel settore delle costruzioni. Nel contempo il mondo dei servizi si allargato di circa un milione di addetti. All’interno di questo macro-settore le attività commerciali hanno subito un’emorraggia di circa 200mila posti, tutta dovuta al calo dei lavoratori indipendenti, cioè delle piccole attività insidiate dalla grande distribuzione. Al contrario il comparto dei trasporti e magazzinaggio è salito di 70mila unità, segnando un +11% solo nell’ultimo anno, alimentato anche dalle vendite on-line. Il turismo e l’economia legata al tempo libero spingono il comparto ristorazione e alloggi, che conta oggi 220mila addetti in più.
Competenze cercasi. Con la ripresa economica sono saliti soprattutto gli impieghi a bassa qualificazione. Tra il 2015 e il 2016 i lavori 'basici' sono cresciuti di 170mila unità, quelli medi di 135mila unità mentre calavano di 17mila unità i posti ad alta specializzazione. Nel settore manifatturiero in particolare i posti di lavoro poco qualificati sono cresciuti di 86mila mentre si contano 81mila posizioni di alto e medio livello in meno. Il sistema economico non riesce così ad assorbire parte dei lavoratori più istruiti. Nel 2017 la laurea era richiesta dalle aziende per circa un posto di lavoro su dieci mentre i 'dottori' sono oltre il 20% dei giovani tra i 25 e i 30 anni. E nonostante l’Italia 'vanti' un numero di laureati tra i più bassi della Ue, nel decennio i disoccupati con laurea sono cresciuti da 135mila a circa 210mila unità. Cosi sale la quota degli occupati che hanno studiato 'troppo' per la mansione che svolgono. Mentre il mercato richiede specializzazioni per le quali c’è poca offerta.