Per capire cosa si nasconde dietro l’impennata di violenze in Kazakistan dobbiamo forzatamente allontanarci dai pur immensi confini di questo Stato nato dalle ceneri di una delle Repubbliche asiatiche dell’Urss ed esaminare una mappa ancor più vasta: quella cioè che contiene tutte le pedine del Great Game, il «grande gioco», come profeticamente lo chiamò nel 1834 l’esploratore-spia Arthur Conolly, che contrappose per tutto l’Ottocento l’Impero russo e la Corona britannica nella corsa al controllo dell’Afghanistan e delle città carovaniere dell’Asia centrale. Il Kazakistan in fiamme, in preda a una rivolta del gas che insieme al carovita reclama la messa in mora dell’ultraottantenne 'padre della patria' Nuburan Nazarbayev – solo di un soffio più longevo di un altro autocrate della medesima risma come il bielorusso Aljaksandr Lukashenko – non è che un’ulteriore mano di quell’eterna partita.
Kazaki e bielorussi a loro modo si assomigliano. Entrambe le nazioni sono uscite dal giogo stretto dell’Unione Sovietica, entrambe hanno aperto ponti e mercati all’Ovest, entrambe tuttavia hanno ancora bisogno della tutela russa. Ne ha avuto bisogno Lukashenko, che nella rivolta scoppiata lo scorso anno ha beneficiato dei consiglieri e miliziani mandati da Mosca (nonché di un Mig russo grazie al il quale – con autentico atto di pirateria internazionale – è stato dirottato un aereo civile con a bordo un dissidente, poi arrestato) per stroncare le manifestazioni di protesta. Ne ha avuto bisogno ora il Kazakistan, che ieri pomeriggio ha visto arrivare il primo contingente di paracadutisti russi, come peraltro previsto dall’alleanza Csto, la Forza di sicurezza collettiva che riunisce, oltre a Mosca, Kazakistan, Armenia, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan: non a caso, tutte ex repubbliche sovietiche. Per qualcuno, un’invasione camuffata da intervento di pace.
Non meravigliamoci troppo. Il Kazakistan è una pedina strategica del Great Game. Nel suo immenso territorio si cela oltre il 60% delle risorse minerarie dell’ex Urss, ma è negli idrocarburi (produce 100mila barili di greggio al giorno e 54 miliardi di metri cubi di gas all’anno) che si condensa il 70% delle sue esportazioni e il 21% del Pil. Non mancano le accuse di Mosca a non meglio definite «potenze straniere» ispiratrici dell’insurrezione. Gli Usa? La Cina? I dinieghi risentiti (della Casa Bianca) e i silenzi prudenti (di Pechino) non bastano a dissipare i sospetti.
Qualcuno certamente ha armato i rivoltosi dotandoli di ordigni e armi pesanti difficili da reperire in un Paese dal costante controllo poliziesco come il Kazakistan. Grande del resto è la preoccupazione nelle cancellerie occidentali. Da Bruxelles a Londra, da Parigi a Roma, l’invito è quello di deporre le armi e fermare le violenze.
Paradossalmente però la rivolta kazaka – che a Mosca costerà risorse e forse nuove sanzioni, come già quella bielorussa – sta divenendo una carta che Putin intende giocare al tavolo in cui si discuterà di Ucraina con la Nato e con Joe Biden e dove il capo del Cremlino reclamerà la «sicurezza» delle proprie frontiere. Con una novità: la velata minaccia di riesumare – proprio grazie alla sovranità limitata del Kazakistan e della Bielorussia – la mai sopita 'dottrina Breznev'. Duecento anni fa il lento disfacimento dell’Impero ottomano e la brama di accesso ai mari caldi avevano acceso gli appetiti imperiali di Caterina di Russia.
Oggi, più prosaicamente, la posta in gioco sembra essere la ricostruzione dell’Urss. I tempi cambiano. Il Grande Gioco non cambia mai.
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