Don Romano Martinelli, per oltre 30 anni direttore del Seminario della Diocesi di Milano a Venegono (VA) - .
Vive a Villa Cagnola, uno storico complesso affacciato sui laghi di Varese incastonato sui monti a Gazzada, il “papà” di tantissimi sacerdoti ambrosiani. Un padre gentile e cordiale che accoglie le persone con il sorriso e con la classica schiettezza del clero “figlio” di san Carlo Borromeo. Don Romano Martinelli, in una piovosa mattina di agosto, ci accompagna tra le antiche stanze del palazzo che per le diocesi della Lombardia è un luogo di ritrovo e di ritiro, di meditazione e di discernimento. Insomma, la casa adatta per il sacerdote che è nato a Lecco nel 1940 e che per 48 dei suoi 81 anni si è dedicato alla guida spirituale dei futuri preti, i seminaristi. La sua voce, anche se segnata da una battaglia annosa con la malattia («i medici dicono che è conseguenza dell’esposizione alla diossina del 1976 a Seveso – racconta – , dove sono rimasto dal 1972 al 1977»), è decisa e sicura, testimone di una lunga esperienza nell’aiutare i giovani, ma non solo, a dare forma al proprio cammino in questo mondo attraverso l’ascolto, la meditazione e il dialogo. Di recente ha messo insieme le sue riflessioni e i suoi scritti in un volume pubblicato l’anno scorso dall’editrice Àncora e che s’intitola “Parole di padre”. Una paternità, la sua, che nasce da lontano e che, come ogni altra paternità, ha avuto soddisfazioni ma anche difficoltà. Fare un bilancio non è facile, ma la sintesi don Martinelli la trova citando un sacerdote che ha avuto come guida: la paternità spirituale è una conversione continua. Per spiegare questa convinzione il sacerdote torna alle sue origini e ripercorre la sua storia.
«Ricordo che da bambino il desiderio di fare il prete è nato vedendo come confessava il mio parroco e come pregava – racconta –. E già da piccolo avevo imparato ad ascoltare i piccoli problemi dei miei coetanei e a consigliarli; quando non sapevo cosa rispondere chiedevo alla mia mamma, che, però, in dialetto lecchese mi rispondeva: tu di queste cose non devi interessarti. Poi entrai nella Pia Società San Paolo, in quello che era il pre-seminario di Balsamo, dove cominciai a fare il tipografo (tra l’altro rimettendoci una parte di un dito in una delle macchine che usavamo). Più tardi mi trasferii ad Alba, dove imparai a lavorare su una rotativa. Ma quando avevo 16 anni vennero da me i miei fratelli maggiori con un messaggio da parte di mia madre (sempre in dialetto): non puoi fare il prete e lavorare, vai in Seminario in diocesi. Per la nostra famiglia era uno sforzo economico non indifferente – aggiunge il sacerdote lecchese –, ma per fortuna sono stato aiutato da alcuni benefattori che mi hanno sostenuto fino alla prima Messa nel 1964 (tra i miei com- pagni di ordinazione di quell’anno quattro sono diventati vescovi e con noi c’era anche Attilio Nicora, poi cardinale)».
Un anno prima di diventare prete, però, la sorpresa: « Il vescovo mi chiese di andare a insegnare italiano e latino nel Seminario Minore a Masnago e passai così il mio ultimo anno di teologia – narra don Martinelli –. Dopo l’ordinazione mi chiesero di continuare gli studi, quindi mi iscrissi a Lettere Moderne all’Università Cattolica, mi ricordo che ero innamorato della Storia dell’arte». Ma il percorso sarebbe cam- biato presto: « Dopo appena due anni mi chiamò il vescovo per dirmi che si stava aprendo un nuovo Seminario minore ad Arcore e mi chiese di andare a fare il padre spirituale. All’inizio tentai di far notare che avevo appena due anni di Messa e che stavo studiando, ma poi, dissi di sì, nella convinzione che un prete è al servizio della Chiesa e che questo è il senso della nostra promessa di obbedienza. Andai da don Giovanni Moioli, insegnante di teologia spirituale e padre spirituale, e gli chiesi come potevo prepararmi a questa missione inattesa » .
A questo punto don Martinelli riporta dal suo libro la risposta che si sentì dare: Moioli «sorrise con compassione – si legge nell’introduzione –. Mi confidò che anche lui aveva appena smesso di fare il padre spirituale di centoquaranta ragazzi del ginnasio: “Ho tribolato non poco. Non so dirti se ci sono riuscito bene, pur con i miei studi. Ma ho capito una cosa importante: non puoi nelle tue meditazioni e accompagnamenti esportare la conversione. La vocazione è conversione! Ciò che devi testimoniare, nei tuoi colloqui o predicazioni, è il fatto che anche tu ti stai convertendo con loro e grazie a loro. Tutto deve nascere da una tua conversione continua”». È questa indicazione che don Romano Martinelli ha posto a guida del suo ministero di padre spirituale e oggi guardando alla propria esperienza, mentre ricorda i nomi dei suoi studenti («tra loro ci sono stati l’attuale vescovo di Brescia, Pierantonio Tremolada, e l’arcivescovo di Gorizia, Carlo Roberto Maria Redaelli», cita non senza un pizzico di orgoglio), conferma che in realtà «la paternità spirituale è un dono del Padre ed è per questo che è lui che bisogna mettere al centro della propria vita. È a lui che dobbiamo sforzarci di “piacere”, come dice san Paolo». Poi aggiunge: «È una cosa che ho imparato dal mio padre spirituale, che mi ha trasmesso il senso della paternità».
Dopo l’esperienza ad Arcore don Martinelli fu chiamato a seguire i ragazzi delle Medie e poi del Ginnasio a Seveso, dove rimase sette anni, accompagnando decine di ragazzi a costruire il proprio futuro: «La vocazione – specifica – non può essere ridotta a una scelta singola, ma è un cammino di discernimento, un percorso che alle volte porta su strade non previste. Così capita che alle volte pur essendo decisi a diventare preti, alcuni abbiano capito che in realtà per loro c’era altro in serbo». Nel 1977 per don Martinelli iniziò una nuova fase, forse la più impegnativa: fu mandato, infatti, a Saronno dove c’era il biennio del Seminario teologico perché don Diego Coletti era diventato rettore del triennio a Venegono e don Renato Corti, che era padre spirituale aveva preso il posto di Coletti come rettore. «Ero di fatto un padre spirituale “senza titoli” – ricorda Martinelli –, non avevo studiato per questa missione, e mi ritrovai in mezzo a colleghi formatori che venivano dalle università e dalle facoltà ro- mane. Inoltre in quegli anni si diffondeva sempre più la psicologia, disciplina diversa dalla direzione spirituale, ma con la quale bisognava fare i conti. Però da Corti imparai molto su come fare il padre spirituale ». Poi nel 1983 il passaggio come direttore spirituale a Venegono, dove ha accompagnato molte generazioni di futuri preti ambrosiani, fino al 2014, anno in cui si è trasferito a Villa Cagnola.
Sul tavolo don Martinelli tiene il libro “Padre nello Spirito”, una lettura a più voci della figura di san Giuseppe nelle parole di Papa Francesco edita dal Centro Ambrosiano. Da quelle pagine, come un saggio padre spirituale che conosce l’importanza di mettere ordine nella vita dell’anima, estrae un foglio di appunti: «Ripensando ai tratti fondamentali della paternità spirituale ho capito che ci sono alcuni punti saldi in questa missione – nota scorrendo le parole annotate –: occorre educare alla vita, indicare la relazione con Dio sempre come orizzonte fondamentale e porre al centro la libertà dall’altro, pur con tutti i suoi limiti. E poi – aggiunge citando il cardinale Schuster – il padre spirituale deve ricordarsi di essere “l’amico dello sposo” che conduce sempre allo sposo, Cristo. Infine dobbiamo rimanere padri e non padroni, perché chi è davanti a noi si affida totalmente, dandoci una grossa responsabilità: considerarsi padroni porta il rischio di abusi, non possiamo nascondercelo ». Insomma, aggiunge don Martinelli, il padre spirituale «è umile, fa memoria dei propri errori e debolezze, però fornisce anche alcune certezze, non solo consigli. Ad esempio è attento che l’altro abbia una corretta immagine di Dio». E poi, ovviamente, anche la paternità spirituale, avendo a che fare con la libertà umana, sperimenta difficoltà e fallimenti: «Davanti all’esperienza del fallimento del progetto di vita di chi abbiamo accompagnato – confida il sacerdote ambrosiano – il primo sentimento è quello della compassione, cioè del soffrire assieme». Parole prive di giudizio e piene di affetto con le quali don Martinelli si congeda e che rivelano ancora una volta il suo “cuore di padre”.