Il guardacoste "Bija" (al centro) festeggia la scarcerazione. Alla sua destra il boss Mohammed Kachlaf. Entrambi sono nella lista dell'Interpol
Questo testo è un’anticipazione del libro “Libyagate. Inchieste, dossier, silenzi” (Avvenire - Vita e Pensiero, pp. 104, 13 euro) scritto dal giornalista Nello Scavo, inviato di Avvenire. Il libro, in vendita da oggi, prende spunto da uno dei casi più bui degli ultimi anni che è stato oggetto di un’inchiesta giornalistica che ha coinvolto reporter di testate quali The Guardian, The New York Times, Irpimedia e Avvenire grazie al lavoro di Scavo. Vicende legate al traffico di uomini, armi, droga e contrabbandano di petrolio hanno mostrato l’esistenza di una rete internazionale che dalla Libia conduce in Europa attraverso Malta e l’Italia, con la connivenza di faccendieri, politici, e boss della mafia.
Il “rischio reputazionale” per l’Italia è altissimo, dopo essere stata segnalata all’Onu per violazione dell’embargo sulle armi in Libia. Una “violazione tecnica”, perché l’andirivieni di navi militari italiane a Tripoli, allo scopo di svolgere manutenzione per la cosiddetta Guardia costiera, raramente viene notificata da Roma alla missione Onu. La denuncia è in un rapporto degli investigatori delle Nazioni Unite che a metà luglio del 2022 hanno consegnato al Consiglio di Sicurezza un dossier di 367 pagine che pesa come un macigno sulle scelte politiche di questi anni. Davanti alla lista di crimini commessi dalle autorità libiche, sostenute da Italia ed Europa, la violazione dell’embargo rimproverata al nostro Paese sembra quasi un peccato veniale. Tuttavia è proprio grazie alla “manutenzione” italiana che le motovedette libiche possono continuare a commettere i crimini ancora una volta segnalati dall’Onu.
Dalle sabbie libiche passano i destini della stabilità nell’Ue, compresa la guerra in Ucraina. Con la Russia che è stata scoperta a inviare armi a Tripoli nel pieno del conflitto contro Kiev. Munizioni con cui far pesare a Paesi come Italia e Francia la posizione assunta a sostegno dell’Ucraina, in una crescente sfera di influenza del Cremlino, che nei giorni scorsi ha visto la compagnia petrolifera statale libica annunciare in sordina il taglio dell’export di idrocarburi verso l’Italia. «Il settore petrolifero pubblico si è trovato al centro di una lotta di potere tra la leadership della National Oil Corporation e il Ministero del petrolio e del gas», spiega il rapporto degli investigatori Onu. Nell’ultimo anno sono stati registrati «scontri tra gruppi armati che hanno danneggiato le installazioni petrolifere» allo scopo di commettere estorsioni. Tensioni che negli ultimi tempi hanno riportato Tripoli sotto i colpi delle faide della criminalità politica, con l’aeroporto chiuso temporaneamente e almeno una ventina di morti. Nonostante la mancata cooperazione delle autorità, gli ispettori sono riusciti a documentare ancora una volta la filiera del contrabbando del petrolio. Un business che, per dare meno nell’occhio, si serve di una rete internazionale che dalla Libia giunge in Europa attraverso Malta e Italia grazie a «navi multiuso più piccole, utilizzate contemporaneamente o consecutivamente per il trasporto di altre merci lecite o illecite», così da confondere gli investigatori e massimizzare i profitti.
Tuttavia è stata registrata una diminuzione dell’export illegale complessivo via mare, compensata dalle esportazioni illecite via terra in direzione di altri Paesi africani. Ma c’è una domanda a cui il report ha dato una risposta che spazza via l’ipocrisia dei governi europei: quante sono le milizie del mare in Libia? Gli investigatori delle Nazioni Unite confermano l’esistenza non di una, ma di almeno quattro “Guardie costiere”, ciascuna legata a un diverso Ministero e a differenti padrini, in lotta armata tra loro. «Quattro distinte strutture di comando e controllo hanno svolto operazioni nelle acque territoriali e internazionali libiche: la Marina libica; la Guardia costiera libica, anche sotto il comando e il controllo del Ministero della Difesa; l’Amministrazione generale per la sicurezza costiera (Gacs) sotto l’autorità del Ministero dell’Interno; oltre a unità marittime controllate dall’apparato di supporto alla stabilità», scrivono gli ispettori. Una frammentazione operativa voluta anche per ostacolare la capacità di «individuare le agenzie marittime libiche che hanno messo i migranti e i richiedenti asilo a rischio reale di gravi violazioni dei diritti umani».
Il dossier non trascura la situazione a est, nella Cirenaica controllata dal generale ribelle Haftar sostenuto dall’Egitto e soprattutto dalla Russia. Proprio qui, 18 pescatori di Mazara del Vallo vennero reclusi e torturati per oltre tre mesi (108 giorni) dal settembre 2020. Nel 2021 i pescatori sono riusciti a riconoscere il capo dei loro aguzzini, ripreso durante un reportage di una tv francese. Adesso anche gli investigatori Onu non hanno dubbi e potrebbe scattare un mandato di cattura internazionale della magistratura italiana e di quella internazionale. « Due ex prigionieri nella struttura di Kuwayfiyah», spiega il report, «hanno riconosciuto il capo delle guardie, il capitano Bashir Al Jahni, come autore diretto di atti di tortura eseguiti su di loro sotto forma di brutali percosse con bastoni di legno mentre erano costretti a rimanere nudi. Il gruppo di esperti ha stabilito che questi atti avevano causato lesioni fisiche permanenti e gravi traumi psicologici». A subire le più brutali sevizie sono soprattutto i profughi «lungo le rotte controllate da reti di trafficanti di esseri umani, nei centri di detenzione per migranti, e in associazione con operazioni marittime».
Ai nomi noti in passato, tra cui il sempre presente Abdul Rahman al-Milad, alias comandante Bija, si aggiungono figure in grado di ricattare l’Italia e l’Europa a colpi di barconi. Chiedono legittimazione, fondi e mano libera nei campi di prigionia governativi. Tra questi Osama Najim e Adel Mohamed Ali. Sono i responsabili del centro di detenzione statale di Mitiga, a Tripoli. «Najim e Ali (noto anche come Sheikh Adel) hanno anche illegalmente trasferito detenuti da luoghi di detenzione sia non ufficiali sia ufficiali di Tripoli alla struttura di Mitiga, allo scopo primario di utilizzarli per il lavoro forzato come forma di schiavitù». Compreso l’arruolamento nelle milizie e la manutenzione delle armi. Nel corposo fascicolo abbondano le copie dei documenti e delle immagini che incastrano i responsabili, comprese le mappe disegnate da alcuni ex prigionieri e poi confermate da sopralluoghi sul posto e immagini satellitari. Nonostante i depistaggi, gli investigatori sono riusciti a ricostruire 26 eventi criminali che coinvolgono le istituzioni libiche. Si tratta di «gravi violazioni dei diritti umani commessi contro migranti e richiedenti asilo in tre contesti correlati di tratta di esseri umani e traffico di migranti». Una volta catturati in mare, i migranti sono stati «illegalmente detenuti in condizioni sanitarie deplorevoli, con le vittime ridotte in schiavitù e torturate, duramente picchiate giorno e notte, deliberatamente fatte morire di fame». Tra i superstiti che è stato possibile soccorrere, ci sono due ragazze che all’epoca avevano 14 e 15 anni e che hanno raccontato di essere state «violentate ripetutamente, sottoposte a schiavitù sessuale e ad altre forme di violenza sessuale da parte degli ufficiali in un’area di detenzione segreta a Bani Walid.
Il pugnale resta saldamente nelle mani dei clan libici. E l’afflusso di armi soprattutto da Russia, Egitto e Turchia, non lascia presagire tempo di bonaccia. Con Mosca che spinge perché l’instabilità metta sotto pressione i suoi “nemici”. E bastano due righe del report per avvertire del pericolo: «Il gruppo di esperti valuta che le scorte di armi siano rimaste elevate e sufficienti per sostenere qualsiasi conflitto futuro». Una guerra perenne, che all’uscita di questo libro non avrà ancora visto la parola “pace”.