Genova, piccola storia triste sul Bus 3 e tante tenaci luci di umana resistenza
sabato 18 giugno 2022

Una giovane donna sta male, è straniera, il personale la soccorre, alcuni inveiscono, giudicano e protestano per questo. Ma c’è chi fa l’esatto contrario e conosce e pratica solidarietà e prossimità cristiana. Non siamo solo nella nebbia, e non siamo soli…

Gentile direttore,
Genova, venerdì 10 giugno, mattina. Vado al lavoro e salgo sul Bus 3, in via Milano, restando assorto nella lettura. Un ragazzo va dall’autista, che è una giovane donna, segnalando che nei sedili posteriori c’è una ragazza accasciata, con la testa appoggiata al finestrino e la borsa aperta: non si capisce se dorma o stia male. Un’altra donna, che è in borghese ma si qualifica all’autista come sua collega, conferma e le dice di accostarsi alla prima fermata di via Dino Col, che in breve viene raggiunta. Mentre l’autista e la collega prestano un primo soccorso, insorgono tre passeggeri attempati (due uomini e una donna): loro hanno fretta, certamente si tratta di una drogata e sarebbe meglio buttarla sul marciapiede… Un quarto uomo (?) interviene dicendo che la ragazza si trovava in quelle condizioni sin dal capolinea: è colpa dell’autista non aver controllato subito il bus. Gli chiedo perché, essendosi accorto della situazione, non abbia pensato lui ad avvisare l’autista. Risponde, alterato: «Figuriamoci se devo occuparmi di tutti quelli che dormono sugli autobus». Gli altri tre, intanto, continuano con le loro invettive sui drogati e uno di loro accusa l’autista di cercare una scusa per non lavorare. Sono disgustato, tutto questo è semplicemente disumano. Vado ad aiutare l’autista – al telefono con il 118 – a sdraiare la ragazza nel corridoio del bus e a effettuare i primi accertamenti, mentre le tengo sollevate le gambe. Quando l’autista toglie la mascherina alla ragazza capiamo che si tratta di un’immigrata… Pochi altri passeggeri si avvicinano per esprimere solidarietà. Ma la donna incarognita insiste: è per colpa della "tolleranza" che siamo in queste condizioni: «Ma per fortuna adesso cambierà…». Le dico di augurarsi che una cosa del genere non succeda a sua figlia o a sua nipote. Arrivano i soccorsi e io mi accomiato dall’autista, lasciandole i miei riferimenti come testimone nel caso che qualcuno di quei personaggi pensasse di fare un esposto contro di lei. Arrivo in ufficio e racconto la storia ai miei colleghi. Anche oggi ho visto il frutto del veleno sparso per anni da chi reclama la reclusione e il "respingimento" dei diversi, di chi sta in fondo alla scala sociale, indicato come causa del disagio di chi sta appena un gradino più in alto. Una truffa che occulta la vera natura del malessere: poche persone "ai vertici" che manovrano istituzioni e comunicazione, sottraendo risorse, opportunità e perfino la vita a un’umanità che sta "in basso" e non ha sempre coscienza di sé in una società sfibrata e corporativa, dove ci si aggrega per piccoli interessi e spesso si costruisce senso comune (e con-senso) sulla paura e sul mugugno, con l’invidia (dissimulata) verso i più forti e il rancore cieco e sordo verso i più deboli. Un collega mi chiede qual è l’antidoto. «Siamo noi», rispondo, con tutti i nostri limiti, se sappiamo prendere posizione e lottare ogni giorno per ciò che nel profondo sentiamo giusto, bello, vero e vitale. Se sappiamo costruire relazioni significative, anticipando qui e ora quella società a misura umana di cui sentiamo il desiderio e la nostalgia.
Roberto Caristi, Genova

Questa che racconta a me e a tutti noi, gentile amico, è una piccola storia triste. E spero a lieto fine. Spero, cioè, che la giovane donna colta da malore sia stata curata e recuperata pienamente grazie all’intervento di chi non ha girato la testa dall’altra parte. Ma anche senza sapere com’è andata a finire, ovvero restando dentro i confini del suo coinvolgente racconto, vedo nella sua piccola storia alcune luci che non vanno sottovalutate. Luci utili per Genova, la città della Lanterna, e per tutt’Italia. La prima luce l’ha accesa il ragazzo che ha dato l’allarme, segnalando la presenza della donna in difficoltà. Lui ha saputo vedere e capire, e non è rimasto indifferente. Questo vale molto. La seconda luce l’hanno accesa due donne: l’autista del Bus n.3, e la sua collega non in servizio, che hanno immediatamente riconosciuto l’unico dovere e la vera priorità per tutti noi, ma soprattutto per chi svolge, in qualsiasi modo e a qualsiasi livello, un pubblico servizio: quando un essere umano è in difficoltà, si porta soccorso. Questo è l’unico fatto che conta e che merita stima. La terza luce l’hanno accesa le «poche» altre persone che si sono avvicinate ai soccorritori per pura solidarietà. Essere solidali con chi soffre e sostenere chi fa la cosa giusta è semplicemente essenziale. Una quarta luce, anzi direi la prima-bis, l’ha tenuta accesa infine lei, con il suo sguardo partecipe, con il suo racconto dei fatti e con la sua civile fermezza nel prender posto (posto fisico e posto morale) accanto a chi stava male e a chi soccorreva, fronteggiando chi invece pensava soltanto a giudicare, ad alzare le spalle e persino a inveire.
Tutte queste luci contribuiscono ad arginare e a diradare la nebbia del sospetto e del pregiudizio, quella coltre che lei vede infittirsi, che inibisce l’empatia e, dunque, impedisce di restare umani. È un fenomeno pericoloso, e può far prendere alle nostre società strade pessime, ma non bisogna fare l’errore di pensare che questa nebbia domini tutta l’Italia e l’intero mondo a causa del fatto che più di qualcuno l’ha insaccata insieme a serie insicurezze e qualche comprensibile paura della gente semplice, l’ha gonfiata con slogan indecenti e non si è vergognato (e ancora non si vergogna) di spacciarla con ogni mezzo e su ogni mezzo. La nebbia dell’ostilità preconcetta, che si nutre anche di xenofobia e di (più o meno aperto) razzismo è insidiosa, ma non spadroneggia su tutto e tutti. Non c’è solo la nebbia, e non siamo soli nella nebbia. Le luci che vedo accese nella sua piccola storia di città, in un giugno rovente e dolente come quello che stiamo attraversando, sono motivo di speranza e di umana resistenza. Anche perché il dialogo che, poi, quella stessa mattina, lei ha intessuto in ufficio coi colleghi di lavoro fa capire che le luci non hanno brillato appena per un po’ e soltanto su un autobus, inchiodato per qualche tempo e coi lampeggianti accesi, alla fermata della genovese via Col. Lei quelle luci le ha trasmesse e ha tenuto acceso la sua, e ora l’ha condivisa con me e con tutti noi. E questo vale almeno quanto le parole storte di chi ha dimenticato le più elementari virtù civiche e la cristiana carità. Anzi, valgono di più, infinitamente di più. Ripeto: non siamo solo nella nebbia, e non siamo soli.



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