Sono tra coloro che sono rimasti delusi dalla performance di Roberto Benigni al Festival di Sanremo dedicata al biblico Cantico dei Cantici. Forse perché avevo aspettative alte, grazie al ricordo, vivissimo, delle sue meravigliose letture di Dante, della Costituzione italiana, dei Dieci comandamenti; forse perché Benigni ci ha donato film molto amati per la loro poesia e forza etica.
Ma, forse, in questa delusione c’è anche qualcosa di più. Il corpo delle donne, insieme a quello dei bambini, è il primo bene che una civiltà deve tutelare e proteggere con tutte le sue forze. Quando un uomo, un maschio, parla del corpo della donna, prima deve togliersi i calzari dai piedi perché sta entrando in un territorio sacro, una terra fatta sacra da molto amore e da moltissimo dolore. Da sempre il corpo della donna, prima di essere icona dell’amore, è stato immagine di potere, di violenza, di abusi e di soprusi, di corpo ferito e di eros comprato dai maschi. Non si può parlare del corpo delle donne senza avere ben in mente i molti millenni di storia umana in cui le donne hanno vissuto il proprio corpo come luogo da custodire e da preservare dall’uso cattivo dei maschi, un uso sbagliato che ancora troppo spesso è presente e non solo storia.
Ho guardato Benigni insieme a mia mamma e mia sorella. Due donne moderne, laiche, riconciliate con la vita e con i corpi loro, dei figli e dei mariti. Non hanno detto una parola durante lo spettacolo, ma l’aria di casa si è riempita di un pudore mescolato con l’imbarazzo e il disagio. Accanto a loro, io ho avuto forte l’impressione di vedere sullo schermo una donna denudata in pubblico da Benigni, senza che lei avesse dato il suo consenso, denudata ai soli fini dello show. Ho visto quella giovane donna medio-orientale, vissuta due millenni e mezzo fa, e in lei ho rivisto le bellissime ragazze delle Mezzaluna fertile (il Cantico mette insieme antichi poemi nuziali babilonesi e cananei).
Una ragazza 'bruna' in un mondo di maschi, in una cultura patriarcale che vedeva poco e male le donne, nascoste sotto la tenda, a occuparsi per tutta la vita di bambini e anziani. Quando nella Bibbia si incrocia una donna non è mai un incontro banale. Quelle donne hanno in genere lottato e sofferto molto per entrare in quel racconto, hanno dovuto farsi spazio in una cultura che non glielo dava spontaneamente.
Donne che vivevano poco e male, quasi tutte analfabete, e non di rado morivano per gravidanze non sempre volute e desiderate. Quale eros conosceva quella ragazza del Cantico? Non certamente quello delle fantasie di noi maschi del XXI secolo, né quello che ci ha raccontato Benigni. Il Cantico è testo profetico, perché dice ai maschi e alle donne del suo tempo quale fosse il disegno di Dio sulla donna e sull’amore. Non era la descrizione dell’eros che quegli antichi scrittori vedevano attorno a loro, ma l’eros di un mondo futuro sempre desiderato e mai raggiunto. Non dobbiamo infatti dimenticare che il Cantico è un intreccio di presenza e di assenza dell’amato. È anche un canto all’amore non trovato, che fugge, che non si trova: «Lungo la notte, ho cercato l’amore dell’anima mia; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amore dell’anima mia.
L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città: 'Avete visto l’amore dell’anima mia?'» (Cantico 3,1-3). Senza questa dimensione di mancanza, di assenza, di limite, non si comprende l’eros che diventa solo gioco o sterile ricerca di piacere. L’eros è insieme pienezza e indigenza, ferita e benedizione. Ferita per tutti, uomini e donne, ma diversamente e di più per le donne (ferita, cioè vulnus).
Non credo che il Cantico sia stato scritto da una donna, e non lo credo per molte ragioni. Ma soprattutto non lo credo perché una donna non avrebbe parlato del proprio corpo e di quello del suo uomo con quelle parole. Le donne hanno altre parole per parlare dell’amore, dell’eros, della philia e dell’agape. Perché dell’eros le donne amano parlare solo due alla volta, nell’intimità di un rapporto d’amore, dove le parole non dette e quelle sussurrate sono importanti almeno quanto il corpo donato, e quando mancano queste poche parole diverse il corpo parla poco e male.
L’unico numero buono dell’eros è il due. E quando dell’eros si parla troppo e si parla in pubblico l’eros diventa altro, ed è bene usare altre parole molto meno nobili. La Bibbia ha da sempre letto quell’antico canto nuziale in modo sapienziale, allegorico e profetico, non per negare l’eros ma per salvarlo, perché l’unico modo per salvare l’eros è custodirlo nella sua intimità e nel suo nascondimento. E quando il Cantico viene letto senza ideologie e manipolazioni, non si fa una esperienza erotica, ma si fa una esperienza spirituale, mistica e soprattutto poetica: «Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico sta maturando i primi frutti e le viti in fiore spandono profumo.
Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto!» (2,10-13). La poesia è stata infatti la grande assente dalla lettura di Benigni, una poesia mangiata dalla bramosia, molto infantile, di stupire gli spettatori con quell’eros 'nascosto' dai preti e rabbini finalmente scoperto e liberato. Tutti i giorni i media usano i corpi delle donne per fare spettacolo, per vendere, per fare audience. E ogni giorno di più. La Bibbia non lo ha mai fatto. Parla poco di eros e di sesso, perché ne rispetta il mistero e l’intimità. La Bibbia va portata in tv, va portata ovunque, perché parla solo e sempre di vita. Ma se proviamo a manipolarla si chiude e non ci fa accedere al suo mistero e alla sua bellezza. Come, nonostante le probabili buone intenzioni, è accaduto l’altra sera sul palco di Sanremo.