Caro Avvenire,
a proposito delle «lunghe notti del Liceo classico» tenutesi recentemente per invitare a questi studi, vorrei dire che tale scuola è sempre stata una bella scuola di élite. Gli alunni erano spesso di famiglie borghesi e non avevano l’assillo di lavorare poiché sarebbero subentrati ai padri negli studi professionali e nelle aziende di famiglia. In effetti il liceo classico è spesso per raffinati sognatori che si beano di filosofia, di greco e di latino nella loro Arcadia. Nell’Arcadia mancano, però, i risvolti pratici che oggi contano; specie economia e finanza considerate robe da “bottegai” popolani. Oggi, però, chi ignora queste materie è un pesce fuor d’acqua. Comunque greco e latino dovrebbero essere introdotti anche nelle scuole tecniche per ottenere maturati “completi”. Il solo Liceo classico nella vita pratica serve a ben poco poiché contiene un pathosperfuso che genera la repulsa automatica per le cose pratiche (specie se manuali). Servono quindi: matematica, economia, fisica, geometria, scienze (a Medicina il greco serve solo per i termini medicali, e nel Regno Unito nella facoltà di Medicina preferiscono lo Scientifico). Il mondo cambia; tutto scorre. A proposito di Eraclito bisogna andar piano con la filosofia per non essere fuori dal mondo come alcuni “perdigiorno” di Atene antica. “ Primum vivere, deinde philosophari”.
Gian Carlo Politi
Nel Liceo classico che ho fatto io c’erano, effettivamente, molti figli di borghesi. Ma anche, in ogni classe, sei o sette figli di operai, che si distinguevano perché studiavano sodo, più degli altri: perché la famiglia li mandava a scuola con sacrificio, e quei compagni si sentivano tenuti a ricompensare questi sforzi. Perché una famiglia operaia avrebbe dovuto mandare i figli in una raffinata, inutile Arcadia? In realtà quella scuola veniva scelta per i migliori tra i ragazzi non abbienti, per dare loro la chance di compiere il salto sociale che i genitori non avevano potuto permettersi. Ricordo che fuori dall’aula professori, all’ora dei colloqui, le madri di questi compagni si distinguevano dalle altre per il modo di vestire, e anche per una certa fierezza con cui se ne uscivano, dopo avere ascoltato gli insegnanti. Per non pochi ragazzi di estrazione popolare il classico è stata la strada diretta a una laurea e a una professione, e non lo dimenticherei. Una scuola per «raffinati sognatori»? A me sembra proprio di no. Una scuola piuttosto che partendo dal latino e dal greco va alla radice della nostra civiltà, e non solo linguisticamente. Studiare l’epica, le tragedie greche, la filosofia antica e moderna porta quotidianamente su questioni attuali anche oggi, giacché attengono la natura originaria dell’uomo e il suo vivere sociale. E non è vero che al Classico manchino i fondamenti di matematica o fisica. Ricordo lunghe ore di trigonometria e algebra, studiate da me obtorto collo, che però permisero a tanti miei compagni di affrontare brillantemente le facoltà di Medicina, Economia, Diritto. Mi sembra che il signor Politi indulga a un certo pensiero contemporaneo, secondo il quale solo le cosiddette cose «concrete» sarebbero utili nella vita, intendendo per «concrete» esclusivamente quelle scientificamente dimostrabili. (Ma quanto invece, su noi stessi e i nostri simili, sfugge a questa definizione del sapere).
Che, poi, il liceo classico contenga «un pathos perfuso che genera la repulsa automatica per le cose pratiche», mi sembra un’affermazione azzardata. Fior di magistrati, chirurghi e ricercatori si sono formati a greco e latino. Come imparando, oltre a delle lingue apparentemente “morte”, una logica e un modo di procedere nella realtà. Se ripenso al piccolo gruppo di amici della mia terza liceo, trovo chi ora è neurologa, chi psichiatra, chi professore di Università. Magistrati, avvocati, commercialisti. Nessuno che si sia rinchiuso in un’Arcadia. Nemmeno io, che, ancora fresca di greco, non vedevo l’ora di buttarmi nella cronaca nera. Che è materia, il lettore ne converrà, grevemente “pratica”, e lontana da ogni volo pindarico.