Esco dal cinema dopo aver visto Dogman di Matteo Garrone, uno dei rari capolavori dell’attuale cinema italiano e riprendo fiato. Sono scosso... Questo film è un colpo duro allo stomaco e appena ci si riprende dalla dolorosa esistenza di Marcello (alias, lo straordinario ed umano troppo umano Marcello Fonte) un cattivo pensiero mi perseguita.
Quello di un’Italia per niente liberata dal Male. Garrone non è un esploratore alla Verne, ma uno dei pochi registi (un intellettuale libero) nostrano, capace di andare e toccare con mano le ferite vive e laceranti del povero Marcello. Un ultimo, ma in tragica compagnia di tanti ultimi come lui, gli invisibili, i Superflui di Dante Arfelli, in un un Paese di brutti, sporchi e cattivi (con pochi buoni come Marcello) che è ancora in guerra.
La guerra di Marcello, uno del popolo dei baraccati, come i miserabili del Mandrione. I poveracci romani, gli sfollati dopo il bombardamento di San Lorenzo del ’43 che trovarono riparo sotto gli archi di Porta Maggiore. Esistenze da cantina (quella che ha fatto a Roma, fino a ieri, lo stesso Marcello Fonte), mangiando sullo stesso piatto di un cane e cercando di crescere una figlia a distanza da quel fango che schizza ancora fuori dalle pagine di Pasolini. Il Poeta di Casarsa passando in macchina al Mandrione anni dopo scrisse di «tuguri, a ruzzare sul fango lurido, dei ragazzini, dai due ai quattro o cinque anni.
Erano vestiti con degli stracci: uno addirittura con una pelliccetta trovata chissà dove come un piccolo selvaggio. Correvano qua e là, senza le regole di un giuoco qualsiasi: si muovevano, si agitavano come se fossero ciechi, in quei pochi metri quadrati dov’erano nati e dove erano sempre rimasti, senza conoscere altro del mondo se non la casettina dove dormivano e i due palmi di melma dove giocavano». Viene da piangere a rileggere queste poche righe che parlano di una miseria perenne, con cui poi si cresce affamati di riscatto, di potere e denaro, che nella testa matta, impolverata di ignoranza e cocaina, come quella del pugile Simone (l’amico e aguzzino di Marcello) si tramuta in cieca follia violenta.
I ragazzi di vita, i violenti di Garrone, le periferie anonime e i postmoderni non-luoghi (il Villaggio Coppola, nel casertano, in cui ambientato il film) sono gli stessi che in fondo ci aveva già raccontato Pasolini. E per raccontarle da vicino e toccare anche lui le ferite aperte di un’Italia annegata nella sete di odio e petrolio c’è morto, assassinato. Si ritorna sempre davanti a un mare di silenzio, di omertà omicida per riscrivere continuamente gomorre o romanzi criminali che partoriscono figli e nipoti di una Magliana perpetua. Violenti, allucinati come Simone e deboli abbandonati come Marcello hanno lo stesso volto a Scampia a Quarto Oggiaro o nella favela di Rocinha a Rio de Janeiro. Ci sono uomini che è come se portassero da sempre dentro di sé tutto l’odio e tutto il vittimismo dell’umanità intera. Esiste ancora, e spesso nelle nostre vite distratte di schiavi consapevoli di un’esistenza social non ce ne rendiamo conto, un’umanità disumana, in cui vittime e carnefici alla fine si confondono. Come nella storia del Canaro a cui si ispira Garrone, anche se quella magari è una vicenda ancora tutta da rileggere. Per alcuni invece, tipo la spettatrice seduta affianco che abbandona la sala prima della fine del film, sarà difficile rivedere questa storia, forse perché non abbiamo più il coraggio di guardare l’orrore quando è 'reale', come in Dogman.
d è il dolore fortissimo (oltre all’ammirazione estetica per la pellicola) che ci portiamo via ai titoli di coda. L’unica speranza, sta tutta nell’invocazione umana – troppo umana – di Marcello, quel continuo chiamare «amore», alla figlia, agli amici, ai cani... Tornando a casa ho immaginato Pasolini seduto al bar con il Marcello di Garrone che lo consola, sussurrandogli: «Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto».