A prima vista sembra un gioco di parole, un trabocchetto per principianti dell’enigmistica. In realtà la differenza esiste, profonda, sostanziale. Perché un conto è nascere e crescere povero, un altro è diventarlo, fosse pure per scelta. Cambia l’approccio, il contesto direbbero gli esperti, la voglia di rivalsa dei diversi derubati. E poi bisogna intendersi su cosa intendiamo per povertà, se la miseria materiale o la condizione di chi ha perso la stima per se stesso, sprofondando in una cupa solitudine, anticamera della disperazione. Tra i tanti spunti offerti dal Papa nel Messaggio per la Giornata mondiale dei poveri diffuso ieri, uno, forse il più suggestivo, riguarda proprio le mille diversità in cui può declinarsi la stessa situazione di vita.
Certo, a dare titolo è la denuncia delle tantissime persone derubate di tutto dalla guerra, è la condanna della «superpotenza che intende imporre la volontà contro il principio di autodeterminazione dei popoli», però lo sviluppo di questi preamboli chiama in causa la solidarietà concreta, quella fatta di condivisione, anche nel poco, perché chi ha meno sia messo in grado di stare al mondo con dignità. Davanti ai poveri, infatti, vanno bene i bei discorsi, ma prima ancora occorre rimboccarsi le maniche, farsi coinvolgere, mettere in campo, se credenti, la preghiera e la fratellanza, cioè gli ingredienti che realizzano la comunità. Non solo questione di denaro, dunque, pur importante e necessario, ma anche di compassione, vicinanza o, per dirla con il Pontefice, di «cultura dell’incontro».
Allo stesso modo, non sono unicamente i soldi a definire il gradino della scala sociale su cui ci troviamo. Per spiegare meglio il concetto, il Papa ricorre a una suggestione che sembra richiamare la differenza che in economia distingue il debito «buono» da quello «cattivo». Allo stesso modo, osserva Francesco, esiste una povertà che uccide, figlia «dello sfruttamento, della violenza, della distribuzione ingiusta delle risorse». E dall’altra parte c’è una povertà che spinge ad alleggerirsi delle zavorre inutili e a puntare sull’essenziale, liberandoci.
Si tratta allora di capire quali sono i pesi che rallentano il nostro cammino verso una piena realizzazione di noi stessi. La povertà può diventare una scelta, dunque, un bisogno, un invito a riconoscere e quindi a ricercare solo il necessario, per il corpo e per l’anima.
Ricchi di niente, verrebbe voglia di dire parafrasando il poeta Tagore, nel senso che il servizio può dare più felicità del possesso e il pensare al plurale ci completa meglio del rinchiudersi nel proprio particolare. Come in un paradosso ci muoviamo nel recinto dei significati opposti che si possono dare allo stesso concetto. La parola e il modo di pronunciarla sono i medesimi ma disegnano realtà agli antipodi, come la libertà e la schiavitù.
La povertà che uccide si chiama miseria ed è un confino spirituale oltreché materiale che toglie speranza, che annulla le vie d’uscita, che sconta il peso dell’ingiustizia. Precipitare dentro, rifletteva l’abbé Pierre, significa non poter essere 'uomini', venire privati della dignità, non aver voce sul proprio futuro. Il contrario della povertà libera e liberante che vuol dire invece rifiutare di poter essere felici senza gli altri. Una scelta di condivisione che permette a tutti di essere persone per poi tradursi in presenza, in offerta. E si dona non solo il superfluo, l’elemosina, ma il proprio tempo, se stessi. Cercare l’essenziale, come suggerisce il Papa nel Messaggio, consiste allora nello spendersi per gli altri, impegnandosi a mettere, dove non c’è, l’amore vero e gratuito, «che nessuno può rubarci». E che, come in un gioco di prestigio, come in una formula matematica al contrario, si moltiplica nella divisione, rende ricchi impoverendoci.
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