Chiude Rio2016: Giochi “di cuore” e di emozioni Bisogna partire da qui, dalla vertigine del Corcovado per lasciarsi alle spalle l’Olimpiade che oggi chiude e trasloca. Chiunque tu sia, qualunque sia la tua fede. Anche se non ce l’hai. Perché la struggente suggestione delle braccia bianche e spalancate del Cristo Redentore circonda tutto. E spiega molto. L’immensità contraddittoria di Rio de Janeiro, la sua vita dolce e crudele, 17 giorni di Giochi e di medaglie, il mondo che non sa essere in pace ma che si è spostato qui per sport. Poco ha funzionato, molto ha pulsato. Troppo lento, indolente e distratto il Brasile per tenere il tempo frenetico e preciso dell’olimpismo. Troppo disastrate le sue casse per spendere altre energie dopo il denaro investito per aggiudicarselo. Poteva giocarsi una carta sola Rio, quella del cuore. E Giochi di cuore sono stati. Per la gente di qui, che li ha solo sfiorati. Ma che li ha sopportati con il sorriso. Per le storie che hanno saputo raccontare. Per i gesti splendidi che sono riusciti a regalare. Favela e champagne. Troppi di noi pensavano che Rio fosse solo colore e invece è soprattutto dolore. Un contrasto da brividi, come una punta d’acciaio trascinata sul vetro. Stadi grandi e nuovi nel nulla cosmico, a due passi da milioni di disperati, in una città dove quasi metà della popolazione ha meno di vent’anni e ancora non conosce l’alfabeto. Ma se la prima Olimpiade del Sud dell’America, oltre che nelle nostre, fosse riuscita a entrare anche nelle baracche diroccate di chi qui non ha nulla ma un’antenna e una tv scassata quasi sempre riesce a rimediarla, avrebbe lasciato un messaggio importante. Avrebbe mostrato che se un judoka egiziano si rifiuta di stringere la mano al suo avversario israeliano, lo sport lo ricaccia a casa. Espulso, bandito. Per non aver capito perché era qui. Così come la neozelandese e l’americana che cadono in pista, si aiutano a rialzarsi, si aspettano e arrivano abbracciate al traguardo. Istantanee difficili da immortalare altrove. Esempi, gocce di solidarietà, che non servono certo a chi ha bisogno di mettere insieme un pasto. Ma che anche a loro dimostrano che un mondo migliore esiste. Che c’è sempre una speranza. E che lo sport questa volta ha seminato briciole d’oro. L’Olimpiade a Rio ha fatto quello che ha potuto. Ha anche finto di non vedere. Ma ha evitato gli eccessi, probabilmente per pudore. Non si è concessa gesti atletici straordinari, ha sospeso i suoi scandali, ha fatto rumore ma senza disturbare. Ha fatto il suo, nulla di più. Ha vinto, ha perso, ha versato fiumi di lacrime. Ha visto proposte di matrimonio inginocchiate, ha fatto correre donne velate dalla testa ai piedi. Ha sventolato bandiere, fatto indignare atlete ridotte a «cicciottelle». E ingrassato di medaglie pochi soliti noti. Ha generato mani sul petto davanti agli inni, ha assegnato la solita infinita serie di quarti posti. Tanto per chiarire che la vita vera è questa. Che sul podio ci vanno in tanti, ma che sono sempre pochi. E che la normalità è quella degli altri, quelli che restano sotto. Magari solo per una frazione di secondo, ma devono farsene una ragione. Questo è il messaggio, la nuova raccomandata spedita a chi sa leggerla. Giganti per forza, però in punta di piedi. Qualche record in meno e qualche buon esempio in più. Non è detto che sia una regola, la smentita è sempre probabile. Ma al momento lo sport questo ha insegnato. A se stesso, prima che agli altri. Prima di andarsene da qui. Chissà se questa sera, spenta la Cerimonia di chiusura, gli occhi del Brasile piangeranno felici come in quella canzone che dice che le lacrime di Rio sono schiuma dell’Oceano, non finiscono mai. Di certo dopo l’Olimpiade hanno di nuovo qualcosa da guardare quegli occhi, la strada che porta al giusto posto nel mondo.