I paradossi di un mondo che invecchia
lunedì 15 luglio 2024

Troppo felice per preoccuparsi di essere scrupoloso, il principe Titone chiese in dono l’immortalità, dimenticandosi di menzionare il dettaglio dell’eterna giovinezza. Soddisfatto dagli dèi, dovette rassegnarsi a una decrepitezza perenne che, a rigore, dovrebbe durare tuttora. Del resto, se dal piano della mitologia ci spostiamo a quello delle rilevazioni statistiche, ecco che la sorte di Titone risulta molto simile a quella che attende l’umanità nei prossimi decenni. La considerazione viene dalla lettura delle stime Onu sulla popolazione globale, che nell’immediato futuro sarà sì più numerosa, ma per effetto della longevità e non della natalità. Da qui a dieci anni – spiega il rapporto delle Nazioni Unite presentato venerdì da Paolo M. Alfieri su “Avvenire” – gli ultraottantenni supereranno i minori di un anno. Finora, insomma, il neomalthusianesimo aveva considerato la questione in termini sbagliati: il problema non sarebbe che si nasce troppo, ma che si muore troppo poco. È un paradosso sul quale la narrativa di finzione si è soffermata a più riprese, sempre prendendo le mosse dai processi in atto e portandoli poi alle estreme conseguenze.
Due classici della letteratura distopica come Il racconto dell’Ancella di Margaret Atwood e I figli degli uomini di P.D. James (pubblicati nel 1985 e nel 1992, entrambi i romanzi devono una parte della loro fortuna alle successive trasposizioni cinematografiche e televisive) si basano sul presupposto di un’infertilità diffusa, alla quale si cerca di porre rimedio come meglio si riesce: instaurando un oppressivo regime misogino-teocratico nel primo caso, concedendo ai pochi giovani superstiti una sostanziale impunità nel secondo. In un modo o nell’altro, la crudeltà finisce con il prendere il sopravvento, perché un mondo poco generativo non può più permettersi il lusso di non essere crudele.
Saghe più recenti, come quelle di Hunger Games o dei relativamente meno noti Maze Runner e Divergent, sono accomunate dalla fosca previsione di una società senescente che, con la scusa di celebrare la gioventù, costringe gli adolescenti all’esercizio della violenza. Qui, il più delle volte, il mito di Titone si confonde con quello – per tanti aspetti simile – di re Mida, mettendo in scena gli effetti autodistruttivi di un’avidità eretta a sistema. Che qualcosa si stesse guastando nel nostro rapporto con lo scorrere del tempo era abbastanza chiaro già mezzo secolo fa, nel bel mezzo di quella che è unanimemente considerata l’era più prospera e felice mai sperimentata. Nel 1967, infatti, John Frankenheimer firma la regia di Operazione diabolica, un film nel quale un uomo vicino alla vecchiaia si sottopone a un radicale cambio di identità. Ci guadagnerà anche i lineamenti del divo Rock Hudson, peccato però che l’idilliaca comunità in cui si trasferisce sia composta da altre persone anziane che, proprio come lui, portano a spasso il simulacro di una prestanza contraffatta. Erano le avvisaglie dell’ideologia ageless, che nel passaggio di millennio ha ridato vigore al mito di Titone, promuovendo il miraggio di un’eterna giovinezza precariamente allestita su corpi in rivolta contro l’anagrafe.
Una visione culturale che sottintende interessi commerciali ben riconoscibili, non a caso sostenuti dalle operazioni d’immagine allestite dallo star system. Ora, essere avanti negli anni non è una colpa. Al contrario, è una benedizione, come ricorda la Bibbia. Ed è una benedizione venire al mondo, è una benedizione crescere e poter dare vita alla vita. Per questo è necessario che ciascuna età sia vissuta per quello che può essere e che può donare. Abbiamo bisogno di un’umanità che abbia l’innocenza dell’infanzia e la saggezza della vecchiaia, che conservi l’entusiasmo della giovinezza e che si sforzi in ogni momento di diventare adulta. Senza trucchi, senza pretese e, più che altro, senza rimpianti.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: