mercoledì 8 dicembre 2021
Durante la pandemia la disuguaglianza si è accentuata, con i sostegni varati dai governi 20 milioni di persone sono uscite dalla vulnerabilità
Alcuni volontari della mensa di San Tarcisio distribuiscono pasti agli indigenti all'esterno dello storico edificio del Real Albergo dei Poveri a Napoli

Alcuni volontari della mensa di San Tarcisio distribuiscono pasti agli indigenti all'esterno dello storico edificio del Real Albergo dei Poveri a Napoli - Ansa

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La pandemia ha accresciuto il divario fra ricchi e poveri e accelerato la concentrazione di ricchezza delle élites a un livello 'estremo', poiché il 10% della popolazione globale concentra i tre quarti del patrimonio mondiale. Ossia il 53% dei redditi e il 76% della ricchezza del pianeta, mentre il 50% più povero accede all’8% delle entrate e al 2% del patrimonio. È un mondo con più multimilionari e più povertà quello che emerge dal rapporto realizzato dal World Inequality Lab, co-diretto, tra gli altri, dagli economisti Thomas Piketty e Lucas Chancel. In Europa il 10% più abbiente consegue il 36% delle entrate, in America Latina e nel Sud Est Asiatico il 55%, in Africa sub-sahariana il 56%. Lungi dal ridurre il divario, la globalizzazione – che pure ha portato all’ascesa Cina, India o Brasile – ha accresciuto le disuguaglianze nei Paesi. La buona notizia è che la pandemia ha forzato molti Stati a tendere reti di protezione sociale, che non solo hanno protetto i cittadini, ma hanno ridotto il tasso di povertà del 45%, fra il 2020 e il 2021, rispetto al 2018. «In totale – ha spiegato Chancel – 20 milioni di persone sono uscite dalla vulnerabilità. Significa che le politiche sociali sono efficaci e che si può ridurre la povertà estrema nei paesi ricchi con scelte politiche». Tuttavia, ha aggiunto, gli aiuti non sono sufficienti ad attenuare gli squilibri, a causa dell’elevato tasso di crescita del patrimonio dei più ricchi. (Paola Del Vecchio)

Il «World Inequality Report» conferma la tendenza alla polarizzazione della ricchezza

Il «World Inequality Report» conferma la tendenza alla polarizzazione della ricchezza - .

Non lasciamo che il nuovo rapporto sulle disuguaglianze mondiali, appena pubblicato da World Inequality Lab, finisca nel tritacarne delle informazioni da intrattenimento che durano il tempo di una meteora. Trasformiamolo, invece, in documento di riflessione che a partire da ciascuno di noi coinvolga tutti gli ambiti del vivere ecclesiastico, civile, politico, sindacale. Le disuguaglianze, infatti, prima di essere uno specchio della società, sono uno specchio di noi stessi. Sono il termometro del nostro torpore morale e della nostra assenza sociale. Torpore morale perché tolleriamo che invece di garantire una vita dignitosa a tutti, la ricchezza sia distribuita in modo da permettere a pochi di vivere nello scandalo dello spreco. Assenza sociale perché le ingiustizie si affermano quando rinunciamo al nostro ruolo di sentinelle sociali che si prendono cura della comunità e in particolare dei suoi membri più deboli ed emarginati.

Il nuovo rapporto sulle disuguaglianze conferma le tendenze che già conosciamo: le distanze fra ricchi e poveri si aggravano sempre di più. Basti dire che nel 1820, il 10% più ricco intascava il 50% del reddito prodotto a livello mondiale. Nel 2020 la loro quota la troviamo salita al 55%. Viceversa, il 50% più povero, nel 1820 riceveva il 14% del reddito annuale. Nel 2020 la loro quota la troviamo scesa al 6%. La conclusione è che mentre nel 1820 il reddito del 10% più ricco era 18 volte più alto del 50% più povero, oggi è salito a 38 volte. Disparità che si riflettono anche nei livelli di inquinamento: il 10% più ricco è responsabile del 49% delle emissioni di anidride carbonica, il 50% più povero solo del 7%.


Il 10% concentra i tre quarti del patrimonio globale. Tolleriamo che invece di garantire una vita dignitosa a tutti, la ricchezza sia distribuita così da permettere a pochi di vivere nello spreco

Le ragioni di una simile tendenza possono essere ricondotte a tre cause principali: la globalizzazione, la finanziarizzazione, la regressione fiscale. La globalizzazione, che pure era nata come progetto di maggiore interscambio commerciale, alla fine si è tradotta in una riscrittura della geografia mondiale della produzione e del lavoro come conseguenza dell’accresciuta concorrenza fra imprese. Per la verità, quando le multinazionali spinsero per un mercato mondiale sempre più aperto, speravano di ritrovarsi in un mercato così ampio da consentire a tutte le imprese di ritagliarsi il proprio spazio di vendite. In realtà il grande mercato che sognavano non esisteva perché cinque secoli di colonialismo avevano trasformato il 50% della popolazione mondiale in una massa di poveri che non entrano mai in un supermercato.

Perciò ne venne fuori una concorrenza all’ultimo sangue che si giocò anche attraverso il trasferimento della produzione in quei paesi dove la miseria è così acuta da indurre la gente a lavorare per salari miseri e senza alcuna tutela. Una politica che trascinò giù salari e diritti anche nei vecchi paesi industrializzati, fino a produrre ovunque un peggioramento nella distribuzione del reddito fra salari e profitti. Così le classi più agiate si ritrovarono con guadagni sempre più alti e di conseguenza con risparmi più consistenti che in tempi normali avrebbero indirizzato verso investimenti produttivi. Ma la caduta dei salari a livello mondiale non deponeva a favore dell’apertura di nuove attività produttive perché i consumi ristagnavano. Per cui i crescenti profitti in ambito produttivo si orientarono verso la finanza speculativa che ha contribuito a concentrare fortune enormi nelle tasche di pochi. Secondo Oxfam i 2.153 miliardari del mondo hanno la stessa ricchezza patrimoniale di 4,6 miliardi di persone che formano il 60% della popolazione mondiale.


Tutto questo non è frutto della malvagità della natura, ma della volontà umana. Per cui può essere cambiato. Ma solo se ciascuno di noi lo vuole

L’iniquità distributiva poteva essere compensata dall’intervento riequilibratore dei governi tramite il sistema fiscale. Ma ahimè anche su questo piano da anni assistiamo a scelte che tendono a favorire i ricchi. Lo testimoniano la riduzione storica delle aliquote sugli alti redditi, l’abbattimento delle tasse di successione, la mancata introduzione di serie imposte sul patrimonio. Scelte che oltre ad accrescere le disuguaglianze, rendono gli Stati sempre più deboli e incapaci di garantire i servizi richiesti da una società moderna. Per di più costringono i governi a cercare di fare cassa vendendo il patrimonio pubblico, impoverendoli sempre di più. Nei primi anni ’80 i governi occidentali possedevano il 15-30% della ricchezza complessiva accumulata nei loro paesi, ma oggi siamo attorno allo 0%.

In alcuni paesi il capitale pubblico è addirittura negativo perché i debiti superano il valore delle proprietà pubbliche consistenti in strade, edifici, beni demaniali e quel che resta di qualche attività produttiva. Il nuovo rapporto sulle disuguaglianze documenta che in questa situazione si trovano Stati Uniti e Gran Bretagna, ma forse anche l’Italia, considerato che il nostro debito pubblico supera il 150% del Pil. Tutto questo, però, non è frutto della malvagità della natura, ma della volontà umana. Per cui può essere cambiato. Ma solo se ciascuno di noi lo vuole. E lo vorremo nella misura in cui rafforzeremo le nostre convinzioni morali e la nostra volontà di partecipazione.

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