Caro direttore,
domenica 29 maggio è stata celebrata la 56ª Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali sul tema «Ascoltare con le orecchie del cuore». Lo scorso anno si era invece riflettuto sulla necessità di «andare e vedere». Come ricorda spesso papa Francesco, abbiamo sempre bisogno del cuore, abbiamo bisogno di più cuore, abbiamo bisogno di comunicare con il giusto tempo le storie che decidiamo di raccontare. Sia come comunicatori professionisti sia come comunicatori che svolgono in altri settori il proprio servizio, come nel mio caso. E abbiamo la responsabilità e il dovere di resistere ai tempi moderni che “impongono” ritmi frenetici che non danno qualità all’informazione. Dietro le parole e le battute scritte sul taccuino e sul computer ci sono delle persone. Che cosa ne pensa?
Giuseppe Simeone, avvocato Santa Maria Capua Vetere (Ce)
Mi fa piacere che sia un avvocato come lei, caro amico, cioè una persona che per mestiere rappresenta altre persone, a richiamare il principale dovere di chi fa comunicazione e, in diversi modi, informa: ricordarsi che ogni parola che usiamo tocca, motiva o ferisce uomini e donne in carne e ossa. A volte toccandone anche soltanto una (in realtà quasi mai siamo appena “uno”: ognuno di noi è pure le relazioni che intesse con gli altri). Altre volte, infinite di più, toccandone molte, e persino moltissime. È quanto stiamo sperimentando in questi mesi nella comunicazione e nell’informazione sulla terribile fase della guerra d’Ucraina aperta dell’invasione russa: prevalgono purtroppo, con un’intensità impressionante e un quasi unanimismo senza precedenti nel sistema politico-mediatico del nostro Paese, le parole di guerra, che seminano sempre più guerra e pretendono di usare addirittura ragione e cuore per giustificare il massacro d’umanità che è ogni guerra. Non ci si può rassegnare a questo. E su queste pagine di certo non ci rassegniamo.