Giustizia, necessità di riabilitazione e scelte di clemenza L’immagine, del tutto insolita, dei mille detenuti riuniti in San Pietro domenica 6 novembre, a celebrare con il Papa il Giubileo della Misericordia, non può essere soltanto uno stimolo a buoni sentimenti della durata di un giorno. Come non possono, non devono esserlo le parole 'forti', ancora una volta pronunciate da Francesco: «La speranza non può essere tolta a nessuno» e, soprattutto, «perché loro e non io?»...
Lo stesso Pontefice non ha infatti mancato di proporne sviluppi di portata molto concreta quando all’Angelus ha espressamente sottoposto «alla considerazione delle competenti Autorità civili di ogni Paese la possibilità di compiere, in questo Anno Santo della Misericordia, un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento». Troppo frettolosi, taluni commenti. E anche irriguardosi verso lo scrupolo di rispetto delle competenze (che invece è palese nella costruzione e nel suono della frase del Papa), quelli che l’hanno immediatamente tradotta in un appello affinché in Italia 'venga subito concessa un’amnistia', con le modalità particolari che quest’istituto assume nel nostro Paese.
Orbene, il Papa è, sì, anzitutto Vescovo di Roma, ma in quanto tale è anche capo della Chiesa universale e, specialmente in occasioni come questa, si rivolge opportunamente a tutto il mondo, con una sollecitazione che tocca tutti e ciascuno, ma alla quale spetta poi ad altri valutare se e come dare risposte specifiche. Tutto ciò non toglie concretezza a quella sollecitazione, che riceve poi maggiore sostanza da altre parole e da altri gesti di Francesco: così, dalle testimonianze da lui date, di tangibile presa di coscienza della dura realtà del carcere, non in astratto ma nella realtà di singoli luoghi di detenzione; così, dai ripetuti moniti a non fare della pena detentiva – e tanto meno della prigione perpetua – la pena per eccellenza e dagli altrettanto ripetuti incoraggiamenti all’impegno delle istituzioni civili per il sostegno alle pene alternative che in moltissime situazioni – se accompagnate, dove possibile, dalla doverosa riparazione alle vittime – possono offrire, al colpevole di un reato, occasioni di reinserimento sociale, preziose per lui e per l’intera collettività: tanto per fare un esempio, a cominciare dalla prestazione di lavori di pubblica utilità. Quello del Papa, peraltro, non è un discorso di ottimismo tacciabile di ingenua sottovalutazione degli ostacoli.
Lui ci butta, per così dire, in faccia una constatazione che spesso si vorrebbe dimenticare, proprio quando ci si lascia sopraffare dai sentimenti a buon mercato, che rimangono tali. Ci parla di un’«ipocrisia», che fa sì «che non si pensa alla possibilità di cambiare vita» e ci ricorda come ci sia «poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società».
Qui, a essere interpellate non sono solo le istituzioni, che del resto passano talora da forme di indulgenza senza contropartita anche a favore di criminali pericolosi ad atteggiamenti di chiusura verso ogni iniziativa che favorisca il recupero di chi – come si diceva un tempo – è caduto. Infatti, se ciò accade, è anche perché si temono le oscillanti reazioni di un corpo sociale che a sua volta, molto spesso, non si limita a manifestare la giusta esigenza di non regalare facili impunità alla delinquenza (grande o piccola, di strada o dei colletti bianchi) per pretendere invece che, nei confronti di 'quelli lì' ci sia solo un rigore inflessibile: sino al 'dentro, e buttando via la chiave'. Quel richiamo interpella anche tutti noi, e se c’era bisogno di ricordarcelo, lo ha fatto il Papa stesso, ritornando sull’argomento nell’udienza di mercoledì 9 novembre, ammonendo a che «nessuno dunque punti il dito contro qualcuno», così che . tutti ci si renda invece «strumenti di misericordia, con atteggiamenti di condivisione e di rispetto», spinti sinio alla «tenerezza», senza dimenticare che «anche Gesù e gli apostoli hanno fatto esperienza della prigione»…
Quante volte, invece, noi stessi – mi permetto di mettermi anch’io nel gruppo – che pur siamo o ci riteniamo lontani da certi estremi, ci domandiamo davvero «perché loro e non io», e, più che a cercare giustificazioni o, comunque, risposte di tipo sociologico o psicologico, ci si impegna a trarne spunti per tradurre in pratica il 'non giudicare' evangelico? E quante volte, se siamo chiamati a dare un contributo di sostegno, nelle forme più varie, affinché vadano avanti gli sforzi di riabilitazione e di reinserimento di qualcuno, ci giriamo dall’altra parte?