Gentile direttore, a pagina 21 di Agorà di mercoledì 27 aprile leggiamo: «La Parola. Ma non chiamateli Pellirossa». Per amore della precisione mi permetta di chiosare su quel plurale di gran lunga più comune negli articoli redazionali. Nel caso in questione va detto che si tratta di un nome in verità nato già plurale, dal momento che si riferiva a una pluralità di persone: i Pellirosse (dal francese
Peaux-Rouges, ricalcandolo dapprima in
Pelli Rosse e successivamente in
pellirosse, tutto attaccato; o più probabilmente dalla locuzione inglese
red skin, attestata già nel Seicento; il termine è entrato in italiano nel corso dell’Ottocento attraverso le traduzioni di narrativa americana). Stiamo parlando degli Indiani dell’America settentrionale il cui nome di 'Pelli Rosse' fu dato la prima volta dal navigatore italiano Giovanni Caboto che toccò le coste americane (Capo Bretone, Terranova, Labrador), incontrando nel 1497 giust’appunto le popolazioni indigene dei Beothuc (oggi estinti). Ma non perché avessero la pelle naturale di colore rossiccio, bensì perché usavano tingersi il viso e altre parti del corpo con ocra rossa. Non scordiamoci inoltre la regoletta italiana, la quale afferma che i nomi composti di un sostantivo più un aggettivo formano il plurale mettendo entrambi i componenti al plurale. Pertanto i pellerosse. Da qui abbiamo poi fatto il singolare pellerossa (alternando all’altra forma pellirossa). Un cordiale saluto.
Claudio Villa Vanzago (Mi)
Ha ragione, gentile e caro amico, ma le faccio notare, sorridendo, che anche lei alla terzultima curva ha commesso uno sbaglio, un semplice lapsus calami, là dove scrive «Pertanto i pellerosse »… Succede. A quel che so, e che lei mi conferma, avremmo dovuto scrivere «i Pellirosse» o «i Pellerossa ». Comunque quel titolino dice (involontariamente) una doppia verità: «Non chiamateli Pellirossa», perché è due volte scorretto. Nei confronti dei nativi americani e della grammatica italiana. Giro la sua precisazione a chi di dovere. Un cordiale grazie. (mt) PER ASIA BIBI, DETENUTA INGIUSTAMENTE DA 2.500 GIORNI Caro direttore, dopo più di duemilacinquecento giorni di ingiusta detenzione di Asia Bibi in Pakistan, siamo in tanti a continuare a pregare ogni giorno per lei, a firmare petizioni, a sostenere tutti coloro che si occupano - in particolare il giornale 'Avvenire' che lei dirige - di questa sposa, madre e cittadina cristiana, oggi diventata un simbolo della libertà religiosa per tutti. Grazie per come ci tenete sempre aggiornati sull’oramai annosa vicenda. Vorrei solo sottolineare che più siamo a tenere gli occhi aperti e a farci sentire e più la voce arriverà distinta e chiara a chi ha poteri decisionali. Voglio perciò ringraziare il vicepresidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani per la sua lodevole iniziativa di una solenne Dichiarazione di quell’Assemblea a favore di Asia Bibi.
Bianca Paci Roma
ABORTO: ORRORE QUOTIDIANO DI DIMENSIONI ENORMI Gentile direttore, secondo le stime ufficiali riportate dal vostro sito on line
www.avvenire.it, nel mondo avvengono ogni anno almeno 44milioni di aborti, una cifra chiaramente per difetto se consideriamo tutti quelli clandestini. Mentre in Italia, secondo l’ultima relazione al Parlamento, sarebbero scesi per la prima volta sotto i 100mila, ma – sia ben chiaro – quelli effettuati legalmente. Di conseguenza, quello che è successo a Reggio Calabria – «Orrori coperti in ospedale», il titolo che avete scelto di fare – è solo la punta dell’iceberg di una quotidiana tragedia dalle enormi dimensioni, che conferma, semmai ce ne fosse bisogno, di quanto poco valga la vita di chi non può difendersi e soprattutto non vota. Cordialmente
Enzo Bernasconi Varese
QUESTO MONDO CHE TURBA E LA SPERANZA DEI PICCOLI Caro direttore, ho l’opportunità, quasi quotidianamente da due anni, di poter sfogliare e leggere 'Avvenire' grazie a mio genero Jean Claude Didiba. È già da tempo che la situazione politica internazionale mi turba e mi disturba: oserei dire che in alcuni momenti provo angoscia per quanto succede nel mondo. La situazione del Medio Oriente è così ingarbugliata che non si riesce a capire se e quando ci sarà uno sbocco. Anche in Libia c’è un ginepraio più o meno uguale, e c’è solo quel tratto di mare che ci separa... Si pensa come sarà il futuro, ma quale futuro? Guerre e clima... Gli anni ormai ci sono e, quindi, bene o male il vissuto c’è. Nel 1968 siamo partiti in due – Angela e Franco –, ora nella nostra casa siamo in quindici (di cui due generi, uno senegalese e l’altro camerunense, con dei meravigliosi nipoti cioccolatini!), ma quale futuro ci sarà per i nostri figli e nipoti? Nella raccolta 'Riflessioni', poesie scritte da mia nipote Awa Demaldè Diop nel 2008, all’età di 10 anni, c’è una lirica intitolata 'Vorrei un mondo'. Eccola: «Vorrei un mondo di pace, / vorrei soltanto un po’ d’amore, / vorrei che non ci fosse dolore, / mi piacerebbe una vita vivace... / Vorrei che fosse vero / che esistesse aria pura, / vorrei che il vento trasportasse / la vera pace matura, / chissà se arriverà il giorno felice... / e magari ci si potrà divertire, / vorrei sognare cose nuove, / che superino l’orizzonte, / vorrei aprire gli occhi e salire un monte, / no... è troppo difficile! / Vorrei tanto capire che cosa gli uomini respirano, / e vorrei sapere come ci riescono. / Vorrei la verità di quanto è lunga la vita / e continuare a vivere questo mondo in aria pulita». Gliela invio per aiutare a riflettere, per capire sempre meglio che anche i bimbi desiderano che si aiuti il mondo a continuare la sua vita e la sua libertà. Ma in primo luogo, semplicemente, a continuare!
Franco Demaldè San Secondo Parmense