Ogni mattina porto mia figlia Sahel di 20 mesi a comprare pane e latte. Lei si siede tutta felice nel passeggino e prova diligentemente ad allacciarsi la cintura. Tsavo, il suo fratellino di un mese, dorme pacifico tra le braccia della mamma. Abbiamo tutti e quattro la nazionalità italiana sebbene siamo di origine africana. Una versione della "famiglia moderna" di questo Paese. Abbiamo vissuto l’ultimo anno in Togo, Africa occidentale. Al momento stiamo invece trascorrendo l’estate in Val Camonica.
Panettiere e bar distano pochi metri da casa. A causa dei violenti episodi di intolleranza verificatisi da poco a Foggia contro le persone del nostro colore, mi accorgo però di fare molta più attenzione alle auto che si avvicinano. Oggi valuto la possibilità di essere investito o colpito con un sasso lanciato da un finestrino. Un timore tanto irrazionale quanto giustificato. L’immagine del volto tumefatto e sanguinante di Kemo Fatty è impressionante. Il giovane gambiano è stato aggredito lo scorso 23 luglio. Una pietra lanciata da un’auto in corsa gli ha ferito gravemente l’occhio facendolo cadere dalla sua bicicletta. Quello di Kemo, lo avete potuto sapere grazie ad "Avvenire", è il quarto episodio (denunciato) in cui nove africani sono stati aggrediti allo stesso modo nell’ultimo mese. Conosco le strade dove avvengono questi attacchi. Nel 2015 ho infatti realizzato per questo giornale un’inchiesta sui braccianti stranieri del cosiddetto "ghetto di Rignano", situato nelle campagne tra San Severo e Rignano Garganico, a 15 chilometri da Foggia. Sfruttando il mio colore di pelle avevo soggiornato per due settimane in una baraccopoli frequentata da migliaia di africani. Una delle tante realtà che, invece di essere risolte, vengono ripetutamente strumentalizzate dalla politica.
Il clima di intolleranza alimentato da questo Governo mi ha reso più paranoico. Dai fatti di Macerata del febbraio 2018, quando Luca Traini ha sparato contro un gruppo di africani innocenti, giro per le strade guardandomi spesso alle spalle. Vicino a dove abito, a Firenze, un pensionato depresso aveva infatti ucciso un mese dopo senza motivo Idy Diene, un senegalese. Ogni settimana leggo di africani insultati, aggrediti o discriminati.
«Volevo suicidarmi, ma poi ho sparato alla prima persona che ho visto», assicurava il pensionato fiorentino che uccise Diene. «Ho sparato ma volevo colpire un piccione», aveva detto un uomo di Vicenza dopo aver ferito un operaio di Capo Verde. «Non era un atto razzista, era solo una goliardata», erano i commenti rispetto all’episodio di Pistoia dove un gambiano è stato colpito con una scacciacani da alcuni ragazzini. Frasi di questo tipo sono ormai ripetute ogni volta che l’aggressore viene scoperto. Firenze, Cassola, Vicofaro, Macerata, San Calogero, Napoli, e molte altre località italiane hanno riempito la mappa del "Belpaese" di puntini neri, come il colore della pelle di molte vittime, e rossi, come il sangue inutilmente versato. E quando questi e altri atti vengono denunciati da chi non si vuole arrendere davanti all’ignoranza, anche in questo caso si rischia di essere aggrediti.
Per diversi anni chi voleva attaccare lo "straniero", verbalmente o fisicamente, esitava per la riprovazione sociale che questo avrebbe provocato e per il timore di essere punito. Ora ho l’impressione che chi aggredisce creda di avere il consenso di chi governa e la comprensione di tanti. In questa "nuova Italia" i politici spregiudicati prosperano.
Il loro linguaggio tende infatti a esaltare gli istinti umani più bassi e pericolosi. La paura del cittadino diventa proporzionale al successo elettorale ottenibile. Ho lasciato l’Italia quindici anni fa per vivere e lavorare come giornalista in Africa. Ma anno dopo anno, quando atterro sul suolo italiano, una strana angoscia mi stringe il cuore. Un sentimento che si è intensificato con la nascita di Sahel e Tsavo. Questa non è certo l’Italia che ho imparato ad amare e in cui sono cresciuto. E purtroppo, oggi, non è il Paese in cui vorrei veder crescere i miei figli.