Il presepe non è un simbolo, è un racconto. A questo pensavo vedendo ovunque i segni del presepe e, contemporaneamente, nei media riaffiorare anche quest’anno, per motivi diversi, le discussioni intorno alla pertinenza del suo allestimento in luoghi pubblici. È così mentre un preside siciliano lo toglieva dalla scuola, la Regione Lombardia lo inaugurava in piazza. E altrove lo stesso, tra chi vuol togliere e chi vuol mettere. Ci divideremo anche sul presepe? Sulla cosa più semplice e mite, sulla creatura poetica e delicata di san Francesco – santo che tutti a parole peraltro onorano? Quando lo inventò, il santo e poeta non volevo creare un simbolo, ma raccontare nuovamente un fatto.
Anzi il più grande fatto della storia, l’avvenimento che ha portato nel mondo, come dice Ungaretti, un Dio che ride come un bimbo, un Dio che non allontana gli infedeli, che non respinge i poveri, che non evita i fragili. Vorrei che fosse ancora così, un racconto più che un simbolo. I simboli a volte sono freddi, utili a fare propaganda, a essere appunto simboli di idee, o addirittura di ideologie. Certo, il presepe è diventato in un certo senso simbolo di una storia che segna la vicenda del nostro Paese e territorio e società in un modo che solo uno stupido può negare.
Ma innanzitutto si fa per raccontare ancora, per arricchire di particolari che vengono dalla vita vissuta (da qui le nuove statuine proposte anno dopo anno a Napoli, nella via degli artigiani del presepe) la grande scena che nessuno poteva mai prevedere, e che Dio ha creato per noi. Raccontare un fatto è diverso dal difendere un simbolo. I simboli procedono spesso verso l’astrazione, sono simboli per quanto importanti di concetti: identità, civiltà, cultura... Tutte cose sacrosante, specie in momenti di confusione, ma guai a ridurre il presepe, questo mite e misterioso racconto, a un simbolo scontato, utile a propugnare idee invece che a sgranare gli occhi di fronte al fatto che narra.
I simboli possono essere anche impugnati e difesi, e certo va fatto quando sono in gioco questioni serie. Ma il presepe non va brandito, va guardato. Va ascoltato. Con il cuore commosso di chi - come l’innamorato di fronte al sì, all’eccomi della donna amata - si trova dinanzi a un dono immenso, sproporzionato ai suoi meriti e alle sue capacità. È bello, è giusto che uomini e donne, famiglie, persone da sole, o rappresentanti delle istituzioni sentano il bisogno di raccontarsi e raccontare ancora questo grande fatto. È come un riverbero che dallo stupore dei pastori e di san Francesco arriva fino a noi, nelle nostre case tra le mensole e la tv, o nelle piazze, o dove si vive si soffre si cresce.
È una notizia che continua a correre, a raccontarsi. Il più misterioso e affascinante dei racconti. Un fatto vero che, come accade per tutti i fatti importanti, viene raccontato in molte lingue, secondo tante sensibilità e culture diverse. Ma un racconto, non un simbolo ideologico. Infatti mentre i simboli possono scaldare soprattutto le discussioni, i racconti scaldano i cuori e la conoscenza. Ogni discussione, se ben argomentata può essere utile, specie se non nega la storia e la libertà. Ma credo che nel nostro tempo, e nel tempo di questa nostra Italia sempre ferita è sempre benedetta, sia più importante oggi la silenziosa commozione che la vivace discussione.
Alzare i toni davanti al Presepe può essere giusto, se le parole sono attraversate anche dallo stupore, dalla preghiera e dal silenzio del cuore. Perciò viva ogni piccolo o grande presepe, ogni piccola o grande versione d’un racconto del Fatto che ci dà speranza.