Le carestie sono molte e diverse. Il nostro tempo sta attraversando la più grande
carestia di sogni che la storia umana abbia conosciuto. La carestia di sogni prodotta da questo capitalismo individualistico e solitario è una forma molto grave di indigenza, perché mentre la mancanza di pane non estingue la fame, se ci priviamo dei sogni finiamo per non accorgerci più della loro assenza; ci abituiamo a un mondo impoverito di desideri sempre più soffocati dalle merci, e presto diventiamo talmente poveri da non riuscire ad accorgerci di questa povertà. Come è possibile sognare angeli, il paradiso, i grandi fiumi d’Egitto quando ci addormentiamo di fronte alla tv accesa? Per i sogni grandi occorre addormentarsi con una preghiera sulle labbra, o svegliarsi con un libro di poesie aperto sopra il petto, che ha vegliato sul nostro sonno. Il giovane Giuseppe si ritrovò innocente in una prigione, rigettato di nuovo in fondo a un «pozzo» (Genesi 40,15). Quella prigione divenne, però, anche il luogo della piena fioritura della sua vocazione, quella annunciatagli dai sogni profetici di ragazzo. Quei primi sogni lo avevano fatto arrivare schiavo in Egitto; i sogni che interpreterà nella terra del Nilo saranno la strada che consentirà ai suoi grandi sogni giovanili di avverarsi, e di ritrovare i suoi fratelli-venditori e suo padre. È in un carcere dove inizia una nuova fase della vita di Giuseppe, quella decisiva per sé e per il suo popolo (non è raro che un "carcere" diventi il luogo di inizio di una vita nuova). In quel «pozzo», da raccontatore dei suoi sogni Giuseppe diventa interprete dei sogni degli altri. Quand’era ragazzo narrava i suoi sogni, ma non li interpretava. Il dolore per essere stato odiato e venduto dai fratelli, la servitù e poi il carcere, lo avevano maturato e gli avevano rivelato se stesso. E nel crogiuolo delle sofferenze e delle ingiustizie scoprì la sua vocazione, divenne servitore dei sogni degli altri. In quel carcere si trovavano con lui due alti officiali di corte: il coppiere e il panettiere del faraone (40,1). Questi «fecero entrambi un sogno, ciascuno il suo sogno» (40,5). Il mattino «Giuseppe venne da loro e li vide: erano turbati», e chiese loro: «Perché oggi avete una faccia così brutta?». Gli risposero: «Abbiamo fatto un sogno e non c’è chi ce lo interpreti» (40,7-8). I due funzionari raccontarono i loro sogni a Giuseppe, e lui glieli interpretò. Solo chi ha sognato e ha avuto il coraggio di raccontare i suoi sogni può diventare ermeneuta dei sogni degli altri. Per una legge paradossale che è al cuore di molte cose alte della vita, i migliori interpreti dei sogni degli altri sono coloro che hanno più sofferto a causa dei propri sogni. Avere dei sogni e non trovare qualcuno che ce li interpreti è una grande causa di infelicità per chi, nonostante la carestia, continua a sognare - ce ne sono ancora molti, soprattutto nei paesi più poveri di Pil e più ricchi di sogni, sogni che presto produrranno anche ricchezza. I sogni sono sempre cose serie, ma decisivi sono i "sogni a occhi aperti", quelli che chiamiamo progetti, aspirazioni, voglia di riscatto e di giustizia, desideri di futuro e di felicità, quelli che ci fanno intravvedere il nostro posto nel mondo. Ieri e oggi, però, i sogni hanno bisogno di interpreti, di qualcuno che ne sappia decifrare il contenuto, altrimenti quei sogni si spengono. Questi interpreti sono importanti sempre, ma sono fondamentali da giovani, nella stagione dei sogni grandi. Giuseppe inizia a interpretare i sogni come dono a due compagni di carcere: «Giuseppe disse loro: le interpretazioni non appartengono forse a Dio? Raccontatemi, vi prego» (40,8). La "buona" interpretazione dei sogni è quella che nasce dalla gratuità, non quella per profitto («le interpretazioni non appartengono forse a Dio?»). Sta nel bisogno essenziale di questa gratuità la ragione della scarsità dei buoni ermeneuti dei nostri sogni. Sono un dono raro, ma non rarissimo. Le "guide spirituali" appartengono a questa preziosa categoria umana, persone che ascoltano e interpretano i nostri sogni e i nostri segni. La buona interpretazione dei sogni è gratuità chiesta e donata. Non è un mestiere, e se diventa mestiere non è buona. Le interpretazioni che Giuseppe dà a quei due sogni sono molto diverse: al capo dei coppieri predice la liberazione, al capo dei panettieri annuncia la morte – come poi accadrà. Il valore morale di un interprete di sogni si misura dalla sua onestà, cioè dalla capacità e dal coraggio di dirci anche le interpretazioni che non vorremmo sentire. Sono troppi, ieri e oggi, gli interpreti ruffiani che ci dicono soltanto le interpretazioni che ci piace sentire. A volte le interpretazioni sbagliate possono provenire anche da interpreti onesti, che però non hanno abbastanza coraggio e amore – anche se il carisma dell’interpretazione dei sogni si spegne se non lo si custodisce nella sofferenza delle interpretazioni difficili. Ho conosciuto giovani ai quali è stata resa la vita molto difficile, a volte guastata, da cattivi interpreti dei loro sogni, che di fronte ad evidenti segni di vocazione diversa da quella che quel giovane pensava di avere, non hanno avuto né l’onesta né il coraggio della interpretazione vera; e così invece di prendere su di loro il dolore per quella verità costosa, hanno manipolato i sogni e alimentato in quei giovani illusioni, delusioni, frustrazioni, infelicità. Fidarsi di un manipolatore di sogni è più dannoso della morte del sogno per mancanza di interpreti. Dopo due anni, anche il faraone fece un sogno. «Egli stava presso il Nilo. Ed ecco salire dal Nilo sette vacche, belle di aspetto e grasse di carne, a pascolare tra i giunchi. Ed ecco, dopo quelle, altre sette vacche salire dal Nilo, brutte di aspetto e magre di carne … Ma le vacche brutte di aspetto e magre di carne divorarono le sette vacche belle di aspetto e grasse» (41,1-4). Il faraone si svegliò turbato; si riaddormentò e fece subito un altro sogno: «Sette spighe da un unico fusto, grosse e belle. Ma ecco sette spighe minute e riarse dal vento d’oriente germogliare dopo di quelle. Le spighe minute inghiottirono le sette spighe grosse e piene» (41,5-7). Quei due sogni agitarono l’animo del faraone, che mandò «a chiamare tutti i divinatori e tutti i sapienti d’Egitto. Il faraone raccontò il suo sogno ma non ci fu nessuno che li sapesse interpretare» (41,8). A questo punto del racconto arriva una svolta narrativa. Quel capo dei coppieri, al quale Giuseppe aveva interpretato il sogno due anni prima, si ricordò di lui. Ne parlò al faraone, che lo mandò a chiamare. Giuseppe gli rivela immediatamente la chiave per comprendere quanto sta per accadere, e la natura del suo operare: «Non io: Dio risponderà per il benessere [
shalom] del Faraone» (41,16). Siamo di fronte a un momento cruciale ed epocale: la fine dell’età dei divinatori, degli aruspici, dei maghi, e l’inizio del tempo della profezia. Qui Giuseppe diventa il primo profeta di Israele. In questa lettura del sogno del faraone vi ritroviamo, infatti, i tratti essenziali che distinguono l’autentica interpretazione profetica dai prodotti dei divinatori e dai falsi profeti di tutti i tempi. Questa interpretazione profetica è dono-gratuità, perché è esercizio di un carisma che il "profeta" riceve, non un suo manufatto né una tecnica appresa in qualche scuola. È un dono che per poter operare deve essere accolto dal suo destinatario, credendoci. E spinge sempre all’azione e al cambiamento. La nostra società abbonda di consulenti for-profit, è sempre più inondata da maghi e da oroscopi, ma ci mancano troppo i buoni interpreti di sogni – e quei pochi che ci sono non vengono né cercati né ascoltati, e così rischiano di estinguersi per mancanza di domanda. Quel Faraone, invece, credette all’interpretazione-profezia di Giuseppe, e agì. «Ecco, stanno per venire sette anni di grande abbondanza in tutta la terra di Egitto. Poi, dopo questi, si leveranno sette anni di carestia: si dimenticherà tutta quell’abbondanza nella terra d’Egitto e la carestia consumerà la terra [le vacche-spighe magre che divorano le grasse]» (41,29-30). E quindi Giuseppe continuò: «Il Faraone ravvisi un uomo intelligente e saggio e lo stabilisca sulla terra d’Egitto ... per prelevare il quinto dei prodotti della terra d’Egitto durante i sette anni di abbondanza» (41,33-34). Le
carestie da vacche magre passano. Queste carestie, prima o poi, finiscono naturalmente, anche se a volte con grandi costi. Le
carestie di sogni, invece, non terminano da sole. Finiscono soltanto se, a un certo preciso punto, decidiamo di reimparare a sognare. Non è impossibile. Lo abbiamo saputo fare dopo miserie infinite e indicibili: dopo le guerre e le dittature, dopo i fratricidi, dopo le morti dei bambini. Abbiamo voluto, insieme, ricominciare a sognare. Abbiamo così ascoltato i poeti, i santi, gli artisti, che hanno saputo interpretare i nostri nuovi sogni. Abbiamo pregato e pianto insieme, recitato le loro-nostre poesie, cantato le loro-nostre canzoni. Le persone e i popoli rinascono e risorgono veramente soltanto così. «Il faraone si tolse di mano l’anello e lo pose sulla mano di Giuseppe; lo fece rivestire di abiti di lino finissimo e gli mise al collo un monile d’oro» (41,42).