La fine di un anno invita sempre a tentare dei bilanci. Ma l’anno che si chiude in questi giorni ha un valore particolare per l’Afghanistan, dato che giunge alla fine anche l’esperienza della ultradecennale missione Isaf (International Security Assistance Force) a guida Nato, per la stabilizzazione del paese. Al suo posto, nel 2015, inizierà la nuova missione, Resolute Support (Sostegno Risoluto), con molti meno soldati dell’Alleanza a consigliare e addestrare le truppe afghane. Impossibile quindi non cercare di stilare un bilancio complessivo dell’impegno internazionale in Afghanistan, seguito agli attentati dell’11 settembre a New York e Washington, che portarono alla cacciata dei taleban da Kabul e alla decisione – con gli Accordi di Bonn del dicembre 2001 – di creare un nuovo Afghanistan, pacificato, democratico e moderno. Se si ripensa alle speranze e alla fiducia nei nostri mezzi di quegli anni, il bilancio finale non può essere che estremamente deludente: nell’ultimo decennio l’Occidente ha imparato quanto sia arduo, sanguinoso e contraddittorio cercare di stabilizzare le grandi aree di crisi, favorendone un’evoluzione liberale.
MOLTI SFORZI, MOLTI ERRORI Se si dovesse sintetizzare in modo estremo, si potrebbe dire: molti sforzi, molti errori. L’impegno internazionale di Isaf, sotto la guida Nato, ha coinvolto quasi 60 paesi (ben oltre quindi i 28 paesi dell’Alleanza Atlantica) a partire dal 2003 con decine di migliaia di soldati impiegati, arrivando a un massimo di 140.000 uomini dislocati nel paese durante il 2011, per poi scendere progressivamente fino ai 35.000 di quest’anno. A essi vanno aggiunti decine di migliaia di civili che hanno lavorato negli innumerevoli progetti di sviluppo. Non esistono cifre sicure riguardo ai costi totali di questo impegno verso l’Afghanistan, ma le stime più accurate superano i mille miliardi di dollari nell’arco di 13 anni. Di questi fondi, più del 99% sarebbero stati inghiottiti dallo sforzo militare per combattere i taleban e addestrare le truppe nazionali afghane. Per l’impegno umanitario non sarebbero rimaste che le briciole, meno dell’1%. Una percentuale che, da sola, dice molto sulle enormi difficoltà nel mettere in sicurezza il paese. È vero che al-Qaeda non ha più potuto usare quella regione come il proprio rifugio sicuro e i guerriglieri islamisti sono stati cacciati da Kabul, ma il terrorismo di matrice islamista in questi anni è ben lungi dall’essere sconfitto, come dimostrano le tristi cronache di questi ultimi mesi. E i taleban continuano a minacciare la fragile democrazia afghana; hanno anzi infettato il vicino Pakistan che si era illuso di usarli per i propri obiettivi strategici; Islamabad è invece stata colpita dagli stessi demoni del radicalismo aveva colpevolmente evocato. Parte di questi risultati deludenti è anche dovuta agli errori di prospettiva, alla distrazione (causa Iraq) e alla mancanza di coordinamento dei paesi impegnati in Afghanistan. È solo dopo il 2009 che Isaf ha iniziato a cambiare strategia, rafforzando il coordinamento interno e incrementando il training delle truppe nazionali, per 'afghanizzare' la lotta contro gli insorti, riducendo progressivamente il proprio impegno diretto nelle battaglie sul terreno. L’Italia è stata certo uno dei principali protagonisti di questo sforzo: per anni abbiamo tenuto in Afghanistan migliaia di uomini, guidando uno dei quattro comandi regionali di Isaf, quello di Herat, nell’Ovest. Un impegno pagato con la vita di più di 50 nostri soldati, ma i cui frutti in tema di stabilità militare e di sviluppo economico e sociale vengono sempre sottolineati dagli stessi afghani.
IL FALLIMENTO KARZAI E IL PROBLEMA DELLA CORRUZIONE Nonostante errori e fallimenti, il cambiamento sociale e culturale dell’Afghanistan è comunque impressionante: oggi gli stessi taleban accettano le tante scuole femminili aperte nel paese (e che loro consideravano anti-islamiche), esistono giornali e tivù delle più varie tendenze, le università sono in forte crescita, così come le organizzazioni non governative. Il paese si è trasformato da questo punto di vista e nessuno immagina possa accettare di tornare indietro al tetro fanatismo del Mullah Omar. Un’evoluzione sociale che ha contagiato gli stessi insorti islamisti, spesso in disaccordo con la vecchia guardia dei taleban, e apparentemente più disponibili a un compromesso politico. Si sarebbe potuto ottenere molto di più, se non fosse stato per la piaga spaventosa dell’inefficienza e della corruzione, rappresentata dagli otto fallimentari anni di potere dell’ex presidente Hamid Karzai. Ministri e alti funzionari hanno saccheggiato i fondi destinati allo sviluppo, rubando decine di miliardi di dollari (ora depositati per lo più nelle compiacenti banche di Dubai). Le enormi e sfacciate malversazioni hanno umiliato la popolazione afghana, contribuendo a spegnere gli entusiasmi e a favorire la propaganda degli insorti. Il nuovo presidente Asharf Ghani – salito al potere dopo uno stallo di mesi per i brogli elettorali nelle elezioni della scorsa estate – guida un governo di coalizione con il rivale Abdullah Abdullah e sta cercando di ridurre le inefficienze e la corruzione. Probabilmente non arriveranno grandi risultati, ma certo non potrà fare peggio del disastroso suo predecessore.
UN SOSTEGNO RISOLUTO? La Nato non abbandona l’Afghanistan, è il motto dell’Alleanza Atlantica. Con la fine di Isaf, inizia Resolute Support, una missione che deve assicurare il training degli oltre 350.000 soldati e poliziotti afghani (i cui salari sono pagati pressoché totalmente dalla comunità internazionale) e che sarà composta da almeno 12.000 soldati di decine di paesi diversi, senza però alcun ruolo attivo nei combattimenti. Un numero che non soddisfa molto gli afghani, timorosi che il nostro sostegno sia molto meno che 'risoluto'. Dovrà invece aumentare l’impegno finanziario e umanitario per migliorare la vita quotidiana della popolazione e per rafforzare la capacità gestionale del governo di Kabul (senza farsi troppe illusioni). Basterà tutto ciò ad evitare un nuovo collasso dell’Afghanistan? I dati sulle vittime civili e militari sono impressionanti, dato che i numeri continuano a salire per effetto degli scontri con le milizie islamiste e con le bande criminali. Per quanto dolorosi, tuttavia, sono perdite umane considerate 'tollerabili' da Kabul: la società afghana, da decenni del resto, convive con la guerra civile e le stragi. E i taleban non sembrano in grado di sconfiggere in campo aperto le truppe nazionali. La vera partita si gioca invece su due tavoli interconnessi: il primo è a Kabul, con la scommessa di questo nuovo governo di unità nazionale. Se Ghani e Abdullah riusciranno a lavorare assieme, il paese si rafforzerà politicamente. Il secondo tavolo è quello dei negoziati con gli insorti: l’impressione è che siano i taleban a essere in maggiore difficoltà, con crescenti divisioni interne e con la retrovia pakistana sempre meno sicura, dato che l’ambigua compiacenza delle forze armate di Islamabad sembra essersi ridotta. Se si vinceranno queste due partite, allora i morti, gli sforzi, i costi di questo impegno ultradecennale verranno in qualche modo ripagati.