Con una frequenza impressionante si moltiplicano, nella saggistica e nei supplementi culturali dei quotidiani, articoli e interviste volti a demolire il concetto di "razza", a mostrarne l’infondatezza scientifica (e genetica in particolare) e ad esaltare quegli ordinamenti che hanno deciso di attuare una politica di "tolleranza zero" verso il razzismo, in qualunque forma esso si manifesti socialmente. Come risultato si ha da una parte una maggiore e più efficace difesa "politica" di uno dei diritti umani fondamentali, quale quello di eguaglianza; dall’altra però si ha una paradossale perdita: l’identità di numerosissimi gruppi radicatisi a seguito di faticose dinamiche migratorie in contesti etnici, culturali, linguistici di prevalente forza numerica, storica ed economica, viene inevitabilmente ad affievolirsi e tende perciò a sentirsi sempre più minacciata. Le reazioni a questo dato di fatto sono oramai ben note: violenze interpersonali, attentati terroristici, manifestazioni pubbliche il più delle volte inconsulte e poco decifrabili nelle loro intenzioni e nelle loro finalità.
A queste dinamiche se ne aggiungono altre la cui valenza è percepita spesso in modo profondamente equivoco: non esiste, ad esempio, nella cinematografia più vivace e attiva del mondo d’oggi, quella statunitense, produzione cinematografica nella quale nel cast non vengano sapientemente affiancati agli attori di caratteristica identità anglosassone, o comunque europea, altri di etnie minoritarie, ma molto radicate nella quotidianità americana, quali quelle afroamericane, latine, asiatiche ed altre ancora. È estremamente interessante rilevare come i ruoli assegnati a questi attori, che a volte svolgono parti di estrema rilevanza nella trama dei film, sono costruiti dagli sceneggiatori con notevole abilità, prescindendo però completamente dalla loro identità etnica di base. Poiché, in base all’ideologia oggi dominante, le razze non esistono e non devono avere alcun ruolo sociale, ogni "parte", nella trama di un film, dovrebbe in linea di principio poter essere assegnata a un attore indipendentemente dal colore della sua pelle. Decisione più che ragionevole, se non comportasse la riduzione dell’identità etnica a una sorta di "abito", che si può comprare in un grande magazzino che offra la sua merce a una clientela tanto vasta quanto indifferenziata; un abito che viene valutato per il suo prezzo, più che per il suo stile e che crea differenziazioni sociali più che etniche, come ad esempio può fare in una azienda la tuta di un operaio rispetto al colletto bianco di un impiegato.
Il risultato è che nel mondo d’oggi l’impegno antirazzista è dominante (per fortuna!), ma si tratta troppo spesso di un antirazzismo semplicistico, che ha ormai assunto configurazioni equivoche: ha vinto la sua battaglia sul piano scientifico, ma non sul piano culturale. Su questo piano, infatti, sta trionfando un monoculturalismo di matrice euro-anglosassone, aperto all’accoglienza formale, ma non a quella sostanziale di tutte le etnie: riteniamo doveroso accogliere lo "straniero", ma pretendiamo che non solo parli anche la nostra lingua e abbandoni eventuali pratiche umanamente inaccettabili (pensiamo, ad esempio, all’infibulazione), ma che adotti anche il nostro abbigliamento, che faccia propri tutti i nostri costumi, che adotti i nostri ritmi e le nostre modalità lavorative e che moduli gli usi religiosi ed alimentari alla nostra maniera. Sul piano culturale si è ormai affermata l’idea che non solo i gruppi umani siano tutti identici e intercambiabili (il che non è vero), ma che lo siano anche i singoli individui.
Pagina di un manuale scolastico francese di inizio Novecento - .
Idea assurda e pericolosa, affermò anni fa in una celebre intervista il massimo antropologo contemporaneo, Claude Lévi-Strauss, perché non solo va contro il senso comune («come ha affermato una volta l’Unesco, è l’evidenza dei sensi a indicarci che un nero dell’Africa non è identico a un indiano d’America o a un Asiatico»), ma perché non ci induce a prendere sul serio quanto più che il patrimonio genetico siano la storia e le condizioni di vita e le diverse sensibilità religiose a determinare le caratteristiche delle persone. E queste caratteristiche vanno capite e rispettate, evitando forme di assimilazione grossolana.
Non illudiamoci. Non bastano il dilagare in Occidente di ristoranti etnici, l’apertura di tanti musei dedicati alle arti orientali, i generosi ma estrinseci tentativi di integrazione nelle scuole primarie di bambini dal diverso colore della pelle per eludere il nodo fondamentale della questione: il mondo odierno si sta 'globalizzando' omologando le innumerevoli identità etniche minoritarie. Insomma, il razzismo si è reso colpevole di delitti e di violenze abominevoli e va combattuto senza requie, ma non lo si combatte, né tanto meno lo si sconfigge attivando forme di assimilazione apparentemente equanimi, ma che riescono solo con molta fatica a nascondere la loro arroganza. Rinunciamo pure all’uso della parola 'razza' (gravata da tante infamie che probabilmente non riuscirà più a recuperare una sua neutralità), ma non rinunciamo al rispetto nei confronti delle diversità etniche, per quanto queste a prima vista possano apparirci lontane.