«Tutte vittorie pulite», assicurava Gay fino a quando non si è sentito «vittima» di un infausto 16 maggio in cui è bastato un semplice e ordinario controllo a sorpresa per farlo scendere dal podio degli atleti ideali. «Mi sono fidato di gente sbagliata», la prima difesa di Tyson che piange sul doping versato, per colpa del solito medico stregone che vive e sperimenta alle spalle del talento consapevole. È il campione che segue il programma più diffuso, “supera continuamente i tuoi limiti”: e questo, può non conoscere lo spacciatore, ma sa benissimo chi è il camice bianco che gli somministra la sostanza ed è conscio dell’effetto che fa. Basta lacrime, allora. E scappa da ridere se pensiamo che nonostante la «metilsilofrina» in circolo nel sangue, Powell quel 21 giugno in cui è risultato positivo al traguardo dei 100 metri era arrivato settimo, quindi fuori dai prossimi Mondiali di Mosca (10-18 agosto).
Gay e Powell recitano la classica farsa – già sentita in tutte le discipline, scacchi e dama comprese – dell’eroe tradito: il primo dai finti amici scienziati, l’altro, dal farmaco sconosciuto. Più che un farmaco un “elisir” dello sprinter e del lungo lancio, consumato da un intero team, tranne, pare (il condizionale è tassativo) che da “re” Bolt. «Usain non fa uso» di certa robaccia, sono pronti a mettere la mano sul fuoco i milioni di Scevola pro-Bolt. Ma siccome in un anno otto atleti giamaicani sono stati trovati positivi e 6 dei primi 10 velocisti del mondo già fermati per doping, sarebbe meglio stare abbottonati dentro un più cauto e anglosassone «never say never». Mai dire mai appunto, perché la realtà dello sport professionistico (olimpico incluso) è torbida quanto il sangue nelle provette conservate dall’Antidoping. E se l’atletica giamaicana fa piangere, al Tour de France non si ride affatto. Il 14 luglio, giorno della presa della Bastiglia, al Tour si lasciano prendere dal dubbio: l’impresa del britannico Chris Froome (più veloce di “mister Epo” Lance Armstrong) sul Mont Ventoux è tutta farina del suo sacco o bisogna andare a cercare altre “sacche” (vedi quelle ematiche)?.
L’era iperinformatica in cui viviamo, ci induce a pensare che anche i record e i successi sportivi con un colpo di mouse diventano virtuali e cancellabili e i loro protagonisti, patetici cybernauti muscolari studiati e testati in laboratorio. Un pensiero che si infittisce di mistero e che lascia poi tracce di sospetto fino alla prova schiacciante contro il dopato, per lo più seriale. «Il dopato è uno che ruba il pane», diceva il campione di ciclismo Bernard Hinault. Il dopato giamaicano è un ex giovane fenomeno che ha rubato la nostra fiducia di vecchi occidentali. Ci ha appena strappato via l’illusione che si può essere più forti degli inarrestabili americani e diventare gli uomini – e donne – più veloci del mondo, pur essendo nati poveri e senza potersi allenare nei prestigiosi college Usa, ma nell’ultima pista d’atletica della periferia di Kingston. Fino a poco fa, ripensavamo divertiti alla nazionale di bob più esotica che sia mai esistita, quella della Giamaica targata Fiat delle Olimpiadi invernali di Torino 2006. La favola forse si chiude qui e scendono lacrime dinanzi all’epilogo di una Giamaica non più isola felice dell’atletica leggera, ma avvelenata, come tutto il resto del pianeta sport.