venerdì 29 aprile 2016
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Il «Migration Compact» risposta a un fenomeno strutturale È affermazione comune nel dibattito pubblico che il fenomeno migratorio non sia un’emergenza, bensì un dato strutturale. L’affermazione è assolutamente corretta, ma va sostanziata da ragioni oggettive per vincere i fantasmi che essa evoca e i fragili rimedi che suggerisce, a cominciare dalle barriere di filo spinato e dall’erezione di muri che stanno stravolgendo, insieme a panorami e geografie, l’anima stessa dell’Europa. Le paure, i timori che circolano fra noi europei hanno un solo modo per essere sconfitti: fare – lucidamente – i conti con la realtà. Partirei da qui, e da alcuni dati. Pur con una ottimistica previsione di attenuazione della natalità nei prossimi decenni si prevede con certezza una crescita della popolazione del continente subshariano (da cui proviene una grandissima parte del flusso migratorio) che, nel 2050, raddoppierà (circa un miliardo di persone). Se invece la tendenza riproduttiva restasse quella attuale, la popolazione si triplicherebbe. Cito un esempio usato spesso dal professor Massimo Livi Bacci, demografo, che compara due grandi Paesi, l’uno europeo, la Germania, e l’altro africano, la Nigeria: tra oggi e il 2050 il primo perderebbe tra il 16 e il 17% della popolazione, il secondo la vedrebbe crescere del 121% (più che un raddoppio). Se poi si aggiunge che, a potere di acquisto comparabile, il reddito pro-capite della Nigeria è passato, tra il 1990 e il 2013, da circa 1.000 dollari a 2.000 dollari, e quello tedesco da 16.000 a 22.000 dollari, possiamo comprendere che il gap piuttosto che colmarsi – nonostante le difficoltà di crescita europea – si è accresciuto. Questi pochi dati mi sembra diano un più 'realistico' senso all’affermazione secondo cui la migrazione è fatto strutturale. Tanto è vero che siamo passati – al netto dei rientri – da un flusso di migranti di 4 milioni, per tutto il continente europeo, negli anni Ottanta del Novecento, a un flusso di 17 milioni nel primo decennio del Duemila. A questo occorre aggiungere che la crisi demografica europea condurrebbe, in assenza di apporto di immigrati, a un forte invecchiamento della popolazione attiva che, nei prossimi trentacinque anni, potrebbe essere costituita, per quasi il 40%, da ultrasessantenni. Se questi pur parziali dati sono dunque realtà da cui muovere, mi è parsa assolutamente da apprezzare l’iniziativa italiana di sottoporre alla Commissione Europea il Migration Compact, focalizzato sulle politiche europee da adottare con riguardo ai Paesi terzi di provenienza e di transito. L’iniziativa ha peraltro avuto un’accoglienza interessante da parte della Commissione e vale dunque la pena – sia pure in questa fase di prima elaborazione – di aggiungere alcune riflessioni che riguardano le proposte relative ai Paesi africani. Muoviamo da un precedente non entusiasmante quanto agli esiti: mi riferisco al vertice de La Valletta, che si è limitato a prevedere accordi per il controllo delle frontiere da parte dei Paesi africani di provenienza e transito a fronte di un finanziamento europeo di 1,8 miliardi in quattro anni, destinato peraltro a ventotto Paesi. Il Migration Compact, con le sue proposte (l’emissione di Ue-Africa bonds è solo una) ha l’indiscutibile merito, dunque, di rimettere al centro dell’attenzione l’Africa. Ma io ritengo che nessuna politica possa efficacemente essere adottata se non si parte da una consapevolezza lucida (direi spietata) di quelle che sono le condizioni politiche, sociali finanziarie ed economiche di ciascun Paese. Operazione che non potrà trascurare la valutazione di quanto regimi autoritari e dispostici siano essi stessi causa di abbandono migratorio di quei Paesi, né potrà esimerci dal valutare l’impatto (operazione – peraltro – che sarebbe assistita da conoscenze già acquisite da organi di valutazione europei e sovraeuropei) di misure già adottate. Mi riferisco in particolare allo strumento degli Epa, i cui effetti, in particolare sul debito pubblico dei Paesi ex coloniali africani, andrebbero valutati. Né, ancora, ci si potrà sottrarre ad una valutazione degli effetti sulle economie di diversi Paesi africani della presenza di rilevanti realtà imprenditoriali europee. Con qualche brutalità direi che occorrerà valutare quali benefici esse producano in quei Paesi, ovvero quante risorse (e non ce lo auguriamo) esse 'cannibalizzino'. Una valutazione condotta alla luce di questi elementi, nonché il coinvolgimento, nella definizione delle singole azioni, oltre che delle élites politiche anche delle componenti più vivaci e interessate di quelle società, possono costituire un valido supporto per l’efficacia dello sforzo che la Ue dovrebbe apprestarsi a compiere. E che andrebbe finalizzato a mio avviso, per parte consistente, alla valorizzazione del capitale umano costituito dai giovani dei diversi Paesi. Non sarà facile, ma è appunto, per l’Europa, il cimento di un’epoca. *Presidente della Commissione Affari costituzionali © RIPRODUZIONE RISERVATA
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