Un’assoluzione in appello, «perché il fatto non sussiste», dopo una condanna in primo grado. Succede. Del resto, è per garantire un giudizio il più possibile equo, imparziale e corretto che il nostro ordinamento prevede due gradi di giudizio di merito, più quello di legittimità in Cassazione. Ma quella di Simone Uggetti, ex sindaco di Lodi che cinque anni fa venne arrestato per turbativa d’asta e martedì scorso è stato riconosciuto non colpevole, sta facendo più notizia di quanto generalmente faccia in Italia un’assoluzione (cioè poco, oppure niente). Non per la sentenza in sé, bensì per un fatto politico. Si tratta delle scuse pubbliche rivolte da Luigi Di Maio a Uggetti, per averlo bersagliato dopo l’arresto con modalità che definisce «grottesche e disdicevoli». Partecipò infatti a una manifestazione di piazza, a Lodi, per chiedere le dimissioni del sindaco.
Se di vera svolta si tratta, lo si vedrà a breve, perché nelle prossime settimane la variegata maggioranza del governo Draghi, di cui anche il Movimento 5 Stelle fa parte, sarà chiamata a discutere e approvare le riforme del processo penale, oltre che di quello civile, e del Consiglio superiore della magistratura, che la ministra Marta Cartabia e i suoi "tecnici" stanno proponendo. Per il momento, tuttavia, bisogna riconoscere l’indubbia portata politica della riflessione del ministro degli Esteri, che dei 5 stelle è stato il capo politico e resta tuttora una delle figure di primo piano. Una mossa a suo modo coraggiosa e non isolata, perché ha subito raccolto i consensi del prossimo leader del M5s, l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, e di altri esponenti di rilievo dello stesso, come la sindaca di Roma Virginia Raggi.
Di Maio e Conte criticano apertamente la «gogna», «elettorale» e «mediatica», e affermano di volerla rifiutare come strumento di lotta politica. Il primo, anzi, ricorda altri processi in cui l’indagato o l’imputato di turno (Raggi compresa) è stato immediatamente condannato sui media e assolto, dopo anni e con poco clamore, in tribunale. Un bel passo avanti, comunque la si pensi, per un Movimento che ha trovato nell’invettiva giustizialista una delle chiavi del suo successo elettorale. Non è un caso che molti, tra quelli che non sono più dentro perché usciti o cacciati, abbiano criticato ieri Di Maio. Se confermata, questa correzione di rotta sarebbe di portata analoga, se non superiore, a quella europeista che si manifestò con la partecipazione del M5s all’elezione di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Europea.
Certo, da politico ormai accorto, Di Maio cerca di coprirsi le spalle da eventuali malumori della base pentastellata, molto sensibile sul tema giustizia, sottolineando di non voler sacrificare «la cosiddetta questione morale sull’altare di un 'cieco' garantismo».
E qui tradisce, però, ancora un pizzico dell’ingenuità manettara delle origini. Dovrebbe essere chiaro, infatti, che l’onestà nell’esercizio di funzioni pubbliche (politiche e no) e il garantismo non sono opzioni: sono dettami costituzionali. Non hanno alternative legittime e, in nessun modo che abbia un senso, possono essere contrapposti tra loro. Questo, tuttavia, non è un promemoria da consegnare al solo ministro degli Esteri e alla sua parte politica, che anzi - va detto - è uno dei prodotti ultimi, non la scaturigine, di un certo modo di intendere il ruolo della magistratura inquirente e quello dei partiti politici.
Sono quasi 30 anni infatti, a partire da Tangentopoli, che il rapporto tra questi soggetti si è trasformato in un conflitto permanente che ha inevitabilmente danneggiato nell’immaginario collettivo l’autorevolezza e l’immagine prima dei partiti e, più di recente, anche dell’ordine giudiziario. Altri, ben prima dei 5 stelle, sono stati giustizialisti, salvo scoprirsi garantisti al primo 'incidente di percorso'. Altri ancora, invece, si sono dichiarati sempre garantisti, anche mentre infierivano sull’avversario politico finito in un registro degli indagati. Da troppo tempo si va avanti così. Ma così, lo ripetiamo, non si fa il bene né della politica, né della magistratura, né tanto meno del Paese. Speriamo perciò che la lettera di Di Maio segni davvero una svolta. E che sia una svolta generale.