Gentile direttore,
su “Avvenire” del 3 novembre 2016 a pagina 9, leggo l’articolo di Paola Scarsi «Agli italiani serve educazione finanziaria». A quali italiani? Ai banchieri, ai finanzieri e a tutti quelli che usano il denaro non come un mezzo, ma come un prodotto avariato! Le persone normali e oneste desiderano che a fronte di un prestito, di qualunque tipo, ci sia estrema chiarezza e semplicità. Il tasso a cui viene concesso, e che non sia strozzinaggio, e che sia fisso per tutta la durata del prestito, e il numero delle rate. In questo modo io so cosa devo pagare, senza sorprese, e per quanto tempo. Così mi regolo e – come si dice – non faccio il passo più lungo della gamba. Per quale motivo i banchieri prendono i nostri soldi (ora siamo pure obbligati ad avere un conto corrente, e ringrazio il ministro che ha fatto questa legge...) senza darci un interesse come avveniva ad esempio alla Cariplo ai tempi del prof. Dell’Amore? A quel tempo i nostri soldi venivano prestati ad aziende e artigiani e una parte dell’interesse riscosso veniva dato a noi. Una volta c’era la “Posta”, al servizio dei cittadini. Ora non più. Ma in che razza di mondo viviamo?
Proprio per accendere la luce e far vedere chiaro a chi ora non riesce a farlo ci sono economisti e uomini delle banche come Giuseppe Ghisolfi, vicepresidente di Acri, che si battono per una “alfabetizzazione” degli italiani su termini e questioni che toccano seriamente e anche pesantemente la loro vita quotidiana. Di questo, gentile signor Caleca, trattava quel nostro articolo: lo rilegga e vedrà che in esso si propone una delle possibili strade per rendere più avvertiti, prudenti e liberi i cittadini, che sono pure clienti di banca e investitori (più o meno) per caso. Certo anche a certi banchieri, finanzieri e manager farebbe bene andare a scuola. Proprio perché quasi tutti sanno già molto bene quello che fanno, anche quando fanno male. A diversi di loro bisognerà, perciò, cominciare a ricordare che cosa non devono fare e invece stanno purtroppo facendo sia nell’erogazione dei servizi pubblici universali (come quello che oggi, nel nostro Paese, è largamente negato dalle Poste) sia per preservare un’attività bancaria al servizio delle persone.