Fino a trentacinque anni fa, il giorno di San Giuseppe gli italiani lo trascorrevano in famiglia e con gli amici. Le fabbriche, gli uffici e le scuole restavano chiusi. La festa è venuta meno agli effetti civili, ma non agli affetti di coloro che riconoscono nella figura esemplare di quest’uomo anche un segno del valore – un tempo si sarebbe detto, della nobiltà – del lavoro. Non una statua che fa bella mostra di sé nelle nicchie delle chiese o l’immaginetta infilata devotamente in un libro, ma un uomo che ha vissuto il lavoro per uno scopo, con un senso: sostenere la sua famiglia e far crescere suo figlio. Uno scopo più grande del lavoro compiuto, un senso (una direzione verso cui camminare e un significato da affermare) che nessuna fatica o ostilità può cancellare, come tanti padri e madri lavoratori dopo di lui e sull’esempio di lui hanno testimoniato. Per Giuseppe il lavoro non era né un dovere da subire né un diritto da rivendicare. Era, piuttosto, un’occasione per affermare che la vita vale la pena di essere vissuta per la costruzione di un’opera più grande di sé, eppure capace di rendere ragione di bene, di avvalorare il sudore della fronte e della mente del proprio lavoro quotidiano. Non vi è lavoro umano che sia degno di se stesso, per quanto apprezzabili e desiderabili siano le sue condizioni, perché l’uomo non può essere strumento di nulla, neppure di un progetto di costruzione sociale, economica e politica fondata sul lavoro che perseguisse un «bene(ssere)» astratto, di tutti ma non di ciascuno, cioè non inerente alla vita concreta di ogni cittadino, dall’inizio alla fine della sua esistenza. Un progetto siffatto è una costruzione titanica che schiaccia, annienta l’irripetibile singolarità della persona in azione, dissolvendone l’unicità della sua vocazione lavorativa (riscattata dal gergo ecclesiastico, che ne ha ridotto la valenza antropologica universale: la parola 'vocazione' è la sola capace di portare alla luce il senso umano del lavoro). In Giuseppe, lavoro e vocazione coincidevano praticamente, non secondo la prospettiva stachanovista che esaurisce la vita nel lavoro, ma in quella della vita che diviene feconda, genera un’opera buona attraverso il lavoro. Anche se non abbiamo fatto vacanza, la festa di San Giuseppe ci ha offerto una pausa di riflessione in questi mesi di accesi dibattiti pubblici e sui luoghi di lavoro a proposito di articolo 18, di contratti, di mobilità interna ed esterna alle aziende, di previdenza sociale e di età pensionabile. Tutti problemi seri, serissimi, rimasti sospesi per anni in una congiura del compromesso e del rimando nel tempo che la crisi economico-finanziaria ha spezzato, costringendo ciascuna parte sociale a prendere posizione decisamente e il governo a svolgere il suo compito di mediatore e garante di una soluzione che salvaguardi le opportunità di lavoro non solo dell’attuale generazione di adulti, ma anche di quelle successive. Per quanto apprezzabili siano gli sforzi di tutti, il centro di gravità della questione non cade dentro la base su cui è sorta la costruzione della «nuova economia» e di un «nuovo diritto» del lavoro. Come ogni architettura eccentrica, l’instabilità è elevata e il rischio di crollo inevitabile. Occorre riportare il baricentro del lavoro dentro la persona del lavoratore, delle donne e degli uomini reali che fanno di esso lo strumento della loro comune vocazione (laica) alla fecondità di opere buone, che non sono il mezzo attraverso cui realizzare un «nuovo ordine» economico-sociale, ma il fine cui tutta l’energia produttiva che investe la realtà è orientata, perché fiorisca la vita delle nostre famiglie e dei nostri figli e trovi dignità e valorizzazione quella di chi studia o è già in pensione. È tempo di una riflessione sul senso umano, familiare e sociale del lavoro, prima di quello economico e finanziario, per riscoprire il valore dell’esperienza integrale dell’uomo all’opera. Il lavoro come categoria antropologica non è un retaggio del passato custodito nella storia del pensiero, ma è la risorsa fondamentale per lo sviluppo della persona e della società di oggi e di domani. La prospettiva del mercato, che del lavoro dell’uomo ha fatto una merce, lo ha reso sempre più precario e frammentato, perché ne ha perso di vista lo scopo ultimo (precarietà è mancanza di ragioni per lavorare, ancor più che instabilità del posto di lavoro). Quella che a San Giuseppe non è mancata è stata una (buona) ragione per lavorare, la migliore: la gloria di Dio nella sua vita, il figlio Gesù.