Ansa
Caro direttore,
di fronte al popolo del Myanmar che da un anno resiste, a mani nude e con tutte le sue forze, al colpo di stato dei mi-litari, noi ci inchiniamo. Il popolo afferma la democrazia, afferma la vita, il futuro, mentre i militari golpisti intensificano la repressione, seminano la morte, chiudono ogni prospettiva. I capi dell’Esercito del Myanmar conoscono solo il linguaggio della forza, considerano il popolo un nemico. Migliaia sono le vittime, migliaia gli arresti, la popolazione civile si rifugia nelle foreste perseguitata dai bombardamenti, dalla incontrollata pandemia di Covid, dalla fame. La vita quotidiana in Myanmar è attraversata dalla paura, dall’insicurezza, dalle violenze arbitrarie. Tutti travolti: i giovani, gli anziani, le donne, i bambini come gli adulti. Torniamo a denunciare la violazione di tutti i diritti umani universali in Myanmar.
È inaccettabile quello che è accaduto e sta accadendo. La resistenza del popolo ha dato vita a un Governo di unità nazionale (Nug), con i suoi membri alla macchia, che comprende il partito di Aung San Suu Kyi, la Lega Nazionale per la Democrazia (Nld), la società civile, i gruppi etnici autoctoni e una rappresentanza dei Rohingya. L’unità del Paese è oggi rappresentata dalla Resistenza, che comprende anche gruppi di difesa del popolo (Pdf). È intorno alla resistenza di oggi che nascerà il futuro democratico del Myanmar.
Noi sosteniamo la Resistenza del popolo del Myanmar, che ha preso nelle sue mani il proprio destino. Nella fase di transizione che necessariamente si aprirà con l’indebolimento dei militari, bisogna sostenere ogni sforzo per il dialogo interno inclusivo, la riconciliazione e la pace, la ripresa del cammino democratico. A un anno dal colpo di stato, è evidente che la strategia dei militari è fallita. Non governano il Paese, non sono riconosciuti dalla comunità internazionale. L’economia è crollata, i grandi gruppi economici e dell’energia stanno lasciando il Myanmar. Cresce il commercio delle armi, fornite soprattutto dalla Russia. Per questo chiediamo una più efficace azione politica internazionale, che comprenda l’embargo delle armi, la cessazione delle violenze, l’apertura del dialogo interno inclusivo.
Chiediamo, insomma, che la comunità internazionale difenda il destino democratico del popolo birmano. E chiediamo l’impegno dell’Onu, della Ue, degli Usa, della Cina, dell’Asean, del Giappone, dell’India, dell’Australia e della Russia per favorire il ritiro dal potere dei militari, il ripristino del governo civile in Myanmar, l’apertura immediata di canali umanitari indipendenti dai militari, la difesa dei diritti umani universali. Per tutto ciò è necessaria l’immediata liberazione di Aung San Suu Kyi e dei prigionieri politici, sottoposti a processi politici privi di verità, la sospensione della pena di morte già inflitta ad alcuni di essi, la restituzione al popolo della sua sovranità. Aung San Suu Kyi è indispensabile, come sostengono alcuni Paesi dell’Asean, a cominciare dalle Filippine, e con il favore della Cina, per aprire il dialogo interno.
Di fronte all’immane tragedia che sta vivendo, spesso nel silenzio internazionale, il popolo del Myanmar, le coscienze democratiche del mondo non possono tacere. Non possono tacere le religioni, la cultura, il diritto internazionale, la società civile. Nel tempo che vede nel mondo le democrazie sottoposte a grandi pressioni, gli interessi economici e militari prevalere sul cammino pacifico dei popoli, i colpi di stato militari e gli autoritarismi aprirsi le vie del potere, non possiamo e non dobbiamo rinunciare a condividere il sogno universale della libertà e della dignità umana. Noi condividiamo il sogno della democrazia del popolo del Myanmar, il suo sogno è il nostro sogno.
Chiediamo al governo italiano di sostenere il popolo del Myanmar e i suoi rappresentanti, e di interrompere ogni traffico commerciale tra l’Italia e il Paese controllato oggi dai militari. Alle donne del Myanmar, che sono parte così attiva dell’opposizione al regime militare, vanno tutto il nostro sostegno e la nostra ammirazione. Esse resistono in ogni angolo della Birmania, nelle carceri, nei villaggi, nelle foreste, sulla rete. Noi siamo con loro, noi camminiamo con loro. Oggi la storia del Myanmar ha la forza della profezia: denuncia il male, annuncia cose nuove, produce cambiamento. Una profezia vissuta da un popolo intero. Una storia di passione e di risurrezione.
Entrambe le autrici sono state presidenti dell’Associazione parlamentare Amici della Birmania