All’improvviso l’azzurro del bel tempo siciliano si trasforma in marrone, e la terra in un paesaggio lunare. Sui computer dell’Istituto nazionale di Geofisica è appena comparso un tracciato anomalo, delle oscillazioni preoccupanti nella Sicilia occidentale. È allarme, ma non è un terremoto. È un tratto d’autostrada, a 20 chilometri da Palermo, che è stato letteralmente sventrato. Prima l’asfalto ha avuto un sussulto, poi si è sollevato di qualche metro. Si è mosso come un serpente, infine si è squarciato. Una bomba sistemata all’interno di un cunicolo è stata azionata da un comando a distanza. È il primo di 57 giorni infernali per la Sicilia, per l’Italia tutta. Quel giorno moriranno il giudice Giovanni Falcone, sua moglie – anche lei giudice – Francesca Morvillo, e tre uomini della scorta: i poliziotti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Davanti ai nostri occhi si stava combattendo una guerra sanguinaria e folle. Volevamo la pace, speravamo che arrivasse presto a interrompere tutta quella violenza. Una pace da raggiungere non con le armi di una trattativa illecita e sconsiderata, ma con quelle della giustizia. Perché se un parallelismo si può fare – fra quegli orribili eventi di trent’anni fa e quelli che stiamo vivendo in queste ultime settimane – sta nella follia sconsiderata della guerra. E nella mancanza di attenzione verso la parola pace e la sua messa in pratica. La pace, oggi come allora, non si costruisce con l’indifferenza.
Falcone e Borsellino – a differenza di quanto pensava chi li accusava di protagonismo – non avevano dichiarato una "guerra personale" a cosa nostra. Avevano una toga sulle spalle e facevano il loro dovere, quello che troppi per troppo tempo non avevano semplicemente fatto. Per paura, connivenze, o semplicemente per colpevole indifferenza. Esattamente la stessa indifferenza su cui i boss mafiosi puntavano dopo l’attentato di Capaci e perfino – insieme a menti più raffinate – dopo quello di Via D’Amelio.
Furono 57 giorni che cambiarono l’Italia. Vi fu una cesura netta fra il prima e il dopo. Perché se prima di Capaci altre morti illustri (la lista è lunga e non finiremmo di citarle) avevano indignato l’opinione pubblica tanto quanto il tempo necessario per raccogliere i cadaveri dalle strade, pulirne il sangue e celebrare funerali di Stato, subito dopo il tritolo di Capaci non poté essere più così. Nulla tornò più a essere come prima.
L’ala militare dei corleonesi fu smantellata (quasi) completamente. Prima Riina, poi Provenzano, insieme a un lungo elenco di boss e di gregari. Quasi tutti, tranne Matteo Messina Denaro. Il solo che insieme ai fratelli Graviano potrebbe ancora svelare i dettagli di chi pensò – sfruttando il loro sangue – di porre fine alla guerra calpestando la pace della giustizia e della legalità.
Da allora abbiamo una legislazione antimafia che ci invidiano in tutto il mondo (e che non va smantellata), e una consapevolezza radicalmente diversa. Restano ancora molte ombre. Pericoli, rischi da non sottovalutare. L’anniversario di domani preoccupa non poco: da martedì 24 maggio vi sarà qualcuno, forse più di qualcuno, che potrà sentirsi sollevato, sino a dirsi: "Bene, ora che anche questa ricorrenza è passata si può tornare a non parlare più di mafie".
Si, perché il tema mafie è (quasi) del tutto scomparso dall’agenda politica. Come se la verità su quella stagione – e il periodo che la seguì con le stragi in "continente", o che la anticipò, come i tanti omicidi a cui ancora non è stata data giustizia (ce lo ricorda sempre don Luigi Ciotti) – non interessi più a nessuno. Come se in questo drammatico momento storico, pandemico e di guerra, lo spettro dell’inflazione e della crisi economica che potrebbe stravolgere la vita di molte famiglie e imprese, finisca per allontanare da noi il pensiero delle mafie, quasi che in questo scenario così terribile non esista più. Niente di più lontano dal vero, ahinoi. Basterebbe pensare a quanto le numerose agevolazioni economiche e finanziarie concesse oggi al nostro Paese rappresentino un’occasione d’oro per i clan. Mafiosi meno riconoscibili, senza coppola e lupara che in giacca e cravatta si sono fatti impresa, e sono pronti a investire muovendosi lungo quel crinale sottile che separa l’economia legale dall’illegale.
Le mafie, trent’anni dopo, sono ancora fra noi. Siamo noi, semmai, che distratti non guardiamo la verità in faccia e preferiamo nascondere la polvere sotto il tappeto. Perché è più comodo così, com’era più comodo allora trattare illecitamente piuttosto che perseguire la pace con gli strumenti della giustizia. Com’è più comodo pensare alla guerra che si sta combattendo alle nostre porte come inevitabile, invece che convincere i diversi attori – aggressore e aggredito – a sedersi al tavolo per la pace.
D’altronde, quando chiedevano a Falcone se «fosse ossessionato dal pensiero della morte» la sua risposta era. «No, non sono ossessionato! Si muore di tante cose, e a volte anche di niente!».
Ed è sul quel morire di "niente" che oggi, trent’anni dopo, dovremmo riflettere.