L’Europa deve cambiare in fretta il suo modello economico, perché se spera di tornare a crescere riproponendo le ricette che l’hanno portata al successo il secolo scorso allora finirà male. La sintesi – brutale – del discorso che Mario Draghi ha tenuto domenica al Center for Economic Policy Research di Parigi sta tutta qui. A questo simposio di economisti, il più importante evento di questo tipo in Europa, Draghi ha fatto un passo in avanti rispetto al Piano per la competitività presentato a settembre: in quel dettagliato e ampio report, chiesto dalla Commissione europea, l’ex presidente della Bce e presidente del Consiglio ha evidenziato le aree in cui l’Europa deve intervenire per riuscire a ripartire (essenzialmente l’innovazione, la competitività sostenibile, la riduzione della dipendenza dall’estero) e ha indicato come fare; domenica, invece, Draghi è andato più in profondità sulle cause della crisi attuale.
Che è appunto una crisi di un modello economico basato su rigore fiscale, moderazione dei salari e forte vocazione all’export. L’Europa è riuscita a diventare la fabbrica dell’eccellenza nel mondo (le auto tedesche, la moda francese, il cibo italiano) ma questo ruolo vale poco nell’attuale contesto, fatto di dazi e chiusure dei mercati globali. Due choc hanno messo in crisi questo modello, avverte Draghi: prima lo choc tecnologico del web e dell’economia digitale; poi la crisi finanziaria iniziata nel 2007 diventata presto una crisi dei debiti sovrani. L’Europa non ha agganciato l’innovazione digitale portata avanti dagli Stati Uniti mentre la paura per la tenuta dei debiti pubblici l’ha spinta a tagliare le spese, comprese quelle per investimenti. «Con lo stallo degli investimenti e la contrazione della politica fiscale, la domanda interna in termini di percentuale del Pil nell’area dell’euro è scesa al livello più basso della fascia delle economie avanzate» avverte Draghi, che era riuscito a portare una linea meno rigida a Francoforte negli otto anni alla guida della Bce.
Allo stesso tempo l’Europa ha fatto poco per rilanciare la domanda interna. Lo sforzo per per integrare i mercati si è indebolito, mentre gli stipendi sono rimasti stagnanti. «Le politiche europee – nota Draghi – hanno tollerato una bassa crescita dei salari come strumento per aumentare la competitività esterna, aggravando il debole ciclo reddito-consumo». Ecco quindi la «costellazione» che ha guidato le politiche europee negli ultimi due decenni: «Una costellazione basata sullo sfruttamento della domanda estera e l’esportazione di capitali, con bassi livelli di salari».
Di questo, è evidente, non sta funzionando più nulla. I grandi marchi dell’export europeo si trovano con consumatori esteri sempre meno disposti a comprare i loro prodotti (su tutti, le automobili) mentre i consumatori interni sono troppo impoveriti per potersi permettere certi prezzi. Gli scarsi investimenti degli ultimi decenni hanno indebolito la capacità di innovazione e quindi anche gli aumenti di produttività sono inesorabilmente modesti. Anche le riforme che servono sono diverse da quelle spinte nei primi due decenni di questo millennio: «Dieci anni fa – ricorda Draghi – il termine era in gran parte limitato all’aumento della flessibilità del mercato del lavoro e alla compressione dei salari. Oggi significa aumentare la crescita della produttività senza spostare la manodopera, ma piuttosto riqualificando le persone».
Sarà una sfida grande e inevitabile. Se l’Europa pensa di tirare avanti così com’è, e accomodarsi sulla strada di un lento declino, Draghi avverte che questa discesa potrebbe essere rapida: «Vogliamo tutti la società che l’Europa ci ha promesso, una società in cui possiamo sostenere i nostri valori indipendentemente da come cambia il mondo intorno a noi – è la chiusura del suo intervento –. Ma non abbiamo il diritto immutabile che la nostra società rimanga sempre come la desideriamo. Dovremo lottare per mantenerlo».