martedì 24 gennaio 2017
Negli ultimi 12 anni il Paese a cavallo tra Europa e Asia è passato dall'aspirazione a entrare nell'Unione europea ad essere crocevia del terrorismo internazionale
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan (Ansa)

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan (Ansa)

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Nel 2005 la Turchia era la promessa sposa dell’Unione Europea, un Paese destinato a diventare una piena democrazia. Nel 2017 si è trasformata in un crocevia per il terrorismo internazionale, e con la riforma costituzionale che il Parlamento ha approvato sabato scorso, e con il referendum che si terrà in aprile, finirà nelle mani di una sola persona: il presidente Recep Tayyip Erdogan, primo ministro dal 2003, capo dello Stato dal 2014. Una metamorfosi durata circa 14 anni, lenta agli occhi dei turchi, così veloce da cogliere impreparati gli alleati storici del Paese, in primis gli Stati Uniti e l’Europa. Tutto è incominciato dalla politica estera, per poi riflettersi su quella interna.

Correva l’anno 2009 e l’allora ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, professore universitario protetto dall’allora premier Erdogan, cambiava quelle che erano sempre state le linee portanti delle relazioni internazionali, spingendo per un riavvicinamento ai Paesi del Medioriente a scapito della tradizionale sinergia con l’Occidente. Una Turchia sempre più indipendente da qualsiasi alleanza o influenza, insomma, che aspirava a un ruolo di decision maker. La crisi siriana era un’occasione d’oro per consolidare le sue ambizioni, ma col tempo è diventata una trappola senza uscita. L’avversione, personale e ideologica, del presidente Recep Tayyip Erdogan nei confronti di Bashar al-Assad lo ha portato a cercare l’intervento armato e a finanziare le frange più ambigue dell’opposizione siriana, incluse quelle vicine allo jihadismo. La Russia e l’Iran, entrambi dalla parte del presidente siriano, gli avevano consigliato di starne fuori, ma Erdogan non li ha voluti ascoltare. Parallelamente, all’interno del Paese, ha preso rapidamente forma una virata sempre più autoritaria. Erdogan e la sua Turchia erano visti come un modello per tutto il Medioriente, ma in patria le persone che venivano perseguitate per le loro posizioni politiche sono andate via via crescendo.

La repressione violenta della rivolta di Gezi Parki, nel giugno 2013, ha fatto gettare la maschera al leader islamico turco, che non solo ha silenziato la società civile, ma anche commissariato il suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp), alla guida del Paese dal 2002. I suoi obiettivi sono diventati due: conquistare la presidenza della Repubblica e cambiare la costituzione in senso presidenziale sul modello francese. Il primo lo ha raggiunto nell’agosto 2014, il secondo è diventato la sua ossessione, che pesa ancora nel Paese e che nei prossimi mesi potrà rappresentare l’occasione per nuovi scontri. Erdogan, nella sua deriva autoritaria, era convinto di avere la situazione in pugno. Ma qualcosa non ha funzionato e la responsabilità può solo ricadere su di lui. L’aggravarsi della crisi siriana ha prodotto due conseguenze destinate a pesare sul futuro della Turchia e una di queste anche su quello dell’Unione Europea: il rinfocolarsi della questione curda, seguita dalla conseguente alleanza con il Daesh, e il massiccio flusso di migranti, che in pochi anni ha portato Ankara a ospitarne tre milioni. Le milizie curdo siriane, le uniche a combattere via terra il Califfato, si sono così trasformate in una minaccia.

Il timore del presidente è che possano dare vita a una regione autonoma sul modello di quello iracheno, con tutte le conseguenze che questa avrebbe sui curdi che vivono in Turchia e che da pochi mesi hanno trovato un leader, Selahattin Demirtas (co-segretario dell’Hdp, il Partito curdo del popolo democratico), in grado di parlare non solo alla minoranza, ma anche all’elettorato turco. Pur di metterlo in difficoltà, il leader islamico si è alleato con il Daesh e ha interrotto i negoziati che erano stati avviati nel 2009 con il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, con l’obiettivo di porre fine a una guerra interna che va avanti dal 1980. Demirtas, sostanzialmente, non si è mai fidato della riforma costituzionale di Erdogan. E così quando quest’ultimo ha capito che i curdi non lo avrebbero mai appoggiato in parlamento, ha deciso di far saltare tutto, provocando una forte ripresa dell’attività terroristica del Pkk, indispettito non solo per l’interruzione delle trattative, ma soprattutto per l’accanimento con il quale il Daesh ha iniziato a colpire anche i curdi in Turchia in seguito all’accordo con Ankara.

Sul territorio nazionale, nel frattempo, la questione migranti è diventata un’emergenza. Il numero dei rifugiati in territorio turco oggi si avvicina ai tre milioni, ed Erdogan sa fin troppo bene di aver perso ogni chance di muovere guerra ad Assad. Il presidente si è così trovato nella condizione di dover correre ai ripari anche davanti al suo popolo. Paradossalmente, ad arrivare in suo aiuto è stata l’Unione Europea, con la firma di un accordo con il quale si è impegnata ad aiutare economicamente Ankara e a liberalizzare i visti turistici purché il Paese non apra le sue frontiere. L’accordo è sempre sul punto di saltare per via del raffreddamento dei rapporti con Bruxelles. Ma il presidente continua ad avere grossi problemi, dentro e fuori il Paese. L’abbattimento del jet russo «Su-24» nel novembre 2015 mentre stava sorvola il confine fra Turchia e Siria ha provocato una crisi politica con Mosca che durerà quasi un anno, con gravi perdite per l’economia.

Il fallito golpe del luglio 2016 ha rivelato quanto la Mezzaluna sia ormai isolata dal punto di vista internazionale e commissariata da quello interno. Erdogan è stato dunque costretto a riallacciare i rapporti con Putin, mentre il resto della comunità internazionale come si è visto ha tardato in quel caso a far pervenire la sua solidarietà. In virtù dell’intesa, il capo del Cremlino ha offerto ad Ankara più autonomia nell’intervenire nel Nord della Siria, nonché opportunità economiche e commerciali. In particolare Putin si è mostrato disinteressato al repulisti che Erdogan ha messo in atto dopo il golpe fallito, che non riguarda più solo i presunti seguaci di Fethullah Gülen – l’ex imam in autoesilio negli Stati Uniti, un tempo alleato del presidente contro gli apparati laici e oggi suo nemico numero uno – e che vede coinvolte oltre 250mila persone.

Il 2017 doveva essere l’anno sella consacrazione di Erdogan ed è diventato quello del rischio. Ad aprile si terrà il referendum costituzionale, sul quale il presidente si gioca tutto. Doveva arrivare all’appuntamento urne con il massimo dei consensi, si ritrova in una situazione quanto mai difficile. La sua popolarità è offuscata dall’emergenza terroristica nel Paese e una crescita economica che dopo anni di successi inizia ad arrancare. I rapporti fra la Turchia e il Daesh, dopo la lotta per il controllo della città di Mosul, hanno iniziato a confliggere e il territorio della Mezzaluna, un tempo base strategica per diverse sigle jihadiste, ora è diventato un obiettivo da attaccare, con oltre 300 morti nel solo 2016. Al terrorismo di matrice religiosa, Ankara deve aggiungere quello curdo-separatista, quello gulenista e quello ultra nazionalista, quest’ultimo, particolarmente pericoloso per le minoranze religiose, anche a causa della virata conservatrice e della nuova identità patriottica favorita da Erdogan in questi anni e dove l’islam gioca un ruolo fondamentale.

L'immagine, a 14 anni di distanza, è quella di un Paese in declino, sull’orlo di una guerra fra più bande, destabilizzato all’interno, inaffidabile fuori. Resta da vedere quale impatto avrà la nuova amministrazione Trump negli Stati Uniti sul sistema di alleanze in essere. Per il resto, il processo referendario per la riforma costituzionale porterà nuove tensioni su un territorio destinato alla guerra interna ancora per molto tempo, che Erdogan non sembra però più in grado di controllare.

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