Destano grande preoccupazione i risultati dell’indagine condotta su un campione di under 30 da Ipsos per conto della Fondazione Raffaele Barletta: il 35% degli intervistati è disposto a lasciare l’Italia per vivere nuove opportunità lavorative e retributive.
Il rischio, per un sistema-Italia che da tempo fa i conti con l’inverno demografico e che lamenta paurosi vuoti tra le coorti giovanili, è quello di perdere altri giovani, oltre a coloro che non sono nati (100.000 studenti in meno all’anno, tra i banchi di scuola), e in particolare proprio quelli più preparati a muoversi sugli scenari globali, con le ovvie, tragiche ricadute che tutto questo avrebbe sul piano della competitività produttiva e della tenuta del quadro previdenziale.
Sempre più si comprende come ciò di cui ci si dovrebbe preoccupare sia l’emigrazione, non l’immigrazione. Tra le motivazioni che spingerebbero tanti giovani a trasferirsi all’estero ci sono i “salari più alti” (45 su 100) e le “opportunità di lavoro migliori” (44 su 100), ma non vanno trascurati segnali differenti, meno direttamente legati a un percorso professionale o a una certa idea di qualità di vita, e più rapportabili a un travaglio esistenziale, a un desiderio di scenari differenti, alla scarsa attrattività del Paese nel quale si è nati. In 14 su 100 sognano di vivere “in un paese con una diversa cultura e un diverso stile di vita”, ovvero (11 su 100) “in un paese con un diverso clima e diversi paesaggi naturali”.
Colpisce il contrasto tra una certa retorica della “Nazione” e il concreto “rifiuto” dell’Italia che tenta i giovanissimi (secondo Eva Sacchi, ricercatrice Ipsos, chi intende lasciare la penisola è in maggioranza tra i 18 e i 22 anni). Impressiona che il Paese che abbiamo costruito non piaccia appunto a coloro per cui lo abbiamo fatto, a chi vi si affaccia all’inizio dell’età adulta. Abbiamo sbagliato qualcosa nel prenderci cura di questa Italia? Stiamo ancora sbagliando qualcosa? Probabilmente sì, e va posto riparo a tutto questo. Vanno cercate tutte le soluzioni possibili per rendere più attrattivo il Paese, va rimesso a posto il suo ascensore sociale, e resa più corretta la sua gestione dei rapporti fra le generazioni. Mi sembra, ad ogni modo, che la questione centrale non sia tanto quella dei bassi salari o delle minori opportunità offerte ai più giovani.
È ovvio che tali problemi esistono, li si deve affrontare ed occorre cercare di rimuovere ogni ostacolo affinché la fuga dei cervelli - ma ormai anche quella delle braccia - si arresti. Ma indubbiamente i fattori in gioco sono più complessi, e le dinamiche psicologiche, emozionali e umorali giocano un ruolo di primo piano nel plasmare le aspettative di classi d’età che soffrono per la crescente marginalità e irrilevanza cui si sentono condannate e che non si riconoscono più di tanto in una comunità nazionale sempre più vecchia, spaesata, instabile.
Purtroppo, i nostri “giovani incerti sul domani”, come ha scritto Andrea Riccardi su questo stesso giornale, vivono una “collera silenziosa, ma profonda”. Grande è la nostra responsabilità di padri, madri, fratelli e sorelle maggiori. È tempo di cessare il lamento sterile, come pure di ricominciare a trasmettere entusiasmo e speranza. Del resto, lo abbiamo fatto in altri momenti difficili - ben più difficili - della nostra storia.
La fuga dei giovani non si arresterà solo con un posto di lavoro meno precario, bensì con un’iniezione di corresponsabilità e di speranza. E mi piace pensare che il clima dell’imminente Giubileo – posto da papa Francesco proprio sotto il segno della speranza – potrà contribuire a modificare quella malattia del profondo che ci tocca tutti, quella passione triste e rancorosa che diventa rigetto e rassegnazione.
Se il grande problema della stagione che stiamo attraversando è la chiusura delle strade e delle prospettive, che diventa chiusura umana, o desiderio insanabile di altrove, ebbene, la “porta chiusa” che si spalanca per l’Anno Santo potrebbe invece essere il simbolo di un domani differente, del fatto che non intendiamo essere gente della rassegnazione o – peggio – della disperazione, della convinzione che i più giovani sono il popolo della fiducia e della speranza.