«Prima della pandemia stavo per comprare una nuova automobile », mi ha detto un conoscente. «La mia ha già sei anni e le réclame dei nuovi modelli promettono novità attraenti. Ma l’improvviso confinamento in casa me lo ha impedito. In due mesi la smania mi è passata. Se posso sopravvivere per due mesi senza comprare l’ultimo modello di automobile – ha aggiunto – perché non potrei aspettare altri mesi? O forse altri anni? La mia auto funziona bene. L’obsolescenza programmata dai costruttori è di dieci anni. Mio papà viaggia con un auto di venti anni fa. A Cuba tante auto hanno più di sessant’anni e brillano come nuove. Se un’auto di sessant’anni inorgoglisce un cubano, perché io dovrei vergognarmi di un’auto di sei anni?».
Allora, quale potrebbe essere la durevolezza ecologicamente, socialmente e economicamente ottimale di un’automobile? Ci soccorrono i princìpi della cosiddetta 'economia circolare', un concetto formulato in Svizzera mezzo secolo fa, ma diventato popolare solo dopo la pubblicazione dell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco. Ormai non c’è documento politico o comunicazione d’azienda che non la nomini, spesso accompagnata da un’altra espressione vaga – green economy – che può voler dire tante cose.
All’economia circolare, per esempio, si appella tre volte anche il cosiddetto Piano Colao, il documento 'Iniziative per il rilancio – Italia 2020-2022' commissionato dal governo durante la pandemia a un comitato di una ventina di esperti. Per fare chiarezza su ciò che è l’economia circolare, e soprattutto su ciò che non è, l’architetto zurighese Walther Stahel, che dell’economia circolare stessa è il padre (anzi, 'il nonno', come dice di se stesso), ha pubblicato in molte lingue il breve libro L’economia circolare per principianti (2019). In esso l’autore, fa un esempio concreto. L’uso durevole dell’automobile Toyota Corolla del 1969 che Stahel guida da mezzo secolo e finora ha permesso di risparmiare la fabbricazione di quattro nuove automobili. Probabilmente ne risparmierà altre, perché il veicolo è passato al figlio di Stahel, che intende continuare a farne uso.
Nel libro Stahel scrive: «Un’analisi delle spese totali lungo 30 anni di ciclo di vita della mia automobile indica che la quota di spese per la fabbricazione si riduce continuamente, mentre quella dei costi del lavoro di manutenzione aumenta: dal 18% dopo dieci anni, al 34% dopo 20 anni e 48% dopo 30 anni; questo vuol dire impiegare meno materiali ed energia nella produzione globale e sostituirli con maggior manodopera locale. L’automobile è ancora in uso, e ci si può aspettare che la quota dei costi per la manodopera arriverà al 75% dei costi totali».
Treni, navi, aerei e veicoli bellici sono fatti per durare almeno mezzo secolo. Molte vetture del glorioso tram milanese 'modello 1928' sono in servizio da quasi un secolo e sono un gioiello di charme e di conservazione. Certo, ci sono anche buoni motivi per non guidare la stessa automobile per cinquant’anni. Ma perché cambiarla ogni cinque o dieci anni? Il senso dell’economia circolare è di sostituire energia e materiali (risorse scarse e costose) con lavoro umano (che abbonda). I manufatti richiedono energia e materiali, la cui produzione genera danni ecologici. Si tratta quindi di concepirli in modo che durino il più a lungo possibile e che quindi diano il massimo servizio nel tempo col minor impiego di risorse naturali.
Ciò si ottiene grazie a una progettazione sapiente di prodotti durevoli, ben riparabili ed eventualmente modulari (per esempio lo smartphone olandese fairphone.com), grazie a una programmata e costante manutenzione (leggi: più manodopera), grazie al recupero e alla ri-manifattura di parti dismesse ma non usurate, e infine, solo in ultima istanza, grazie al recupero dei materiali grezzi per il loro down-cycling, ossia il 'giùciclaggio' (perché, come il moto perpetuo, anche un completo riciclaggio non può esistere). Se riformassimo l’economia per commerciare principalmente servizi (per esempio, chilometri) e per produrre molti meno manu-fatti (per esempio, automobili) avremmo molti vantaggi: più occupazione locale, più cura per le cose (che saranno quindi progettate per dar voglia di conservar-le), meno consumo di energia e di materiali, meno inquinamento, niente pubblicità con la funzione di indurci a comprare sempre più cose che durano sempre di meno. Se volessero ispirarsi alla vera idea dell’economia circolare, i governi dovrebbero dare eventuali sovvenzioni a chi fa riparare e aggiornare la propria automobile per farla durare di più, non a chi la fa distruggere mentre è ancora funzionante per intascare un 'premio di rottamazione'.
Se c’è qualcosa che proprio non merita un premio è l’idea e la pratica della 'rottamazione' di oggetti ben funzionanti. Il principio di durevolezza e di riuso, che è il vero nocciolo dell’economia circolare, dovrebbe essere applicato a più categorie di prodotti possibile. Per esempio all’industria dell’abbigliamento, che vive invece in buona parte di mode passeggere, incessantemente sintetizzate a tavolino dal marketing. Gli strateghi del marketing sono riusciti perfino a far dilagare la pre-rottamazione dei blue-jeans, che permette loro di vendere pantaloni pre-stracciati a prezzi perfino maggiori dei pantaloni nuovi. Dobbiamo prendere l’occasione di questo 'dopo pandemia' per lanciare un’economia nuova, oculata ed efficiente, invece che per rilanciare un’economia vecchia, dilapidatrice e inefficiente. Proprio ora che i poteri pubblici sono costretti a prendere in mano la barra del timone economico, essi devono profittare dell’occasione per cambiare decisamente rotta.