E che nessuno tocchi l’Erasmus
sabato 11 gennaio 2020

Gli studenti che fanno o han fatto l’Erasmus si vedono subito: parlano sempre dell’Erasmus. E del Paese dove l’han fatto. Quando s’incontrano, ma anche per telefono. Se lo ricordino gli inglesi che in nome della Brexit, tra dubbi e calcoli, non son certi di voler contribuire ancora a erasmizzare i giovani europei.

L’Erasmus è l’apice della formazione culturale di tanti di loro. Se han fatto un anno accademico in Francia o in Inghilterra (sono fra i Paesi più gettonati), le materie che hanno studiato là ritengono di saperle meglio di coloro che le hanno studiate qua. È vero? Sì, soprattutto per la lingua: la lingua francese s’impara soprattutto vivendo un periodo in Francia, e la lingua inglese vivendo in Inghilterra. Vivere è parlare, e parlare è vivere. Io ho studiato la lingua francese, ma non ho vissuto in Francia, ai miei tempi non esisteva l’Erasmus. E qui racconterò un aneddoto umiliante per me, ma utile per la tesi che sostengo: andando in Francia a presentare le traduzioni dei miei libri, parlavo col mio pessimo francese, pessimo nella pronuncia ma anche nel possesso lessicale. Non me ne facevo scrupolo. Pensavo che bastasse.

Ma quando m’han tradotto un libro sulla psicanalisi, ci tenevo ad essere preciso, e all’intervistatore ho chiesto che mi fornisse l’aiuto di un interprete. L’intervistatore, si chiamava Fulchignoni e in Francia era un’autorità, mi diede una risposta che mi fulminò: « Monsieur, parlez avec votre français: on vous croira du Tiers Monde et on vous écoutera » («Signore, parlate col vostro francese: vi crederanno del Terzo Mondo e vi ascolteranno»). Come dire: ero un fenomeno da baraccone.

Eppure il francese lo avevo studiato bene (non perché ero bravo, ma perché ero povero), ma non ci avevo vissuto dentro. Non lo conoscevo. Non ero francese, ero uno del Terzo Mondo. I romani avrebbero detto: un barbaro. Il motto dell’Erasmus è: sii bilingue. Che non vuol dire studia un’altra lingua, ma vivi un’altra lingua. Cioè: non parlare due lingue, ma vivi due lingue, vivi due vite, vivi due civiltà.

Quando un nostro figlio o nipote torna da un soggiorno in Francia o Gran Bretagna (durante il quale parlava per telefono con tutti gl’infiniti amici che ha in Italia, ma non con te, ma questo è un altro discorso), se lo osservi bene mentre mangia a tavola, lo ascolti, lo spii (con delicatezza, perché s’offende, e chi comanda è lui, non te) ti accorgi che s’è un po’ de-italianizzato, internazionalizzato, europeizzato. Perfino nel tifo: tifa per squadre straniere che tu neanche conosci. Perfino nel tifo letterario: tornando da un soggiorno inglese, il suo poeta è Shakespeare, non più Dante.

Gli studenti che frequentano l’Erasmus sono il nocciolo duro dei giovani europei. Questo è il vero modo per fare l’Europa unita. Se viene a trovarti un amico straniero, francese o inglese, e sta un giorno con te, e mangia con te e la tua famiglia, fai una scoperta alla quale non eri preparato: il tuo figlio o la tua figlia erasmizzata tende a prendere il tuo posto, a sostituirti nella conversazione, a dare lei le risposte che dovresti dare tu, perché conosce la lingua straniera meglio di te, lei fa bella figura e a te evita una brutta figura. L’amico straniero è contento, perché capisce meglio e si sente meglio capito. L’Europa è un palazzo in costruzione, i cittadini sono i mattoni e la lingua che si parla è la malta che unisce i mattoni.

L’Europa Unita finora è l’Europa degli affari, gli uomini d’affari sono stati bravi e attivi nel fare l’Europa. Siamo noi, sedicenti uomini della cultura, della scuola, dei libri e dei giornali, che abbiamo fatto poco o nulla per l’unione. L’Erasmus è il progetto più attraente e più eccitante. Se rallenta o si ferma, i nostri figli sentono questo rallentamento o spegnimento come un lutto. Dobbiamo salvarli dal lutto.

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