Monte Sant’Angelo (Foggia) – Sembra di entrare nel deserto, come da Monte Sant’Angelo ti inoltri in Contrada Pulsano, e scorgi l’abbazia: mura secolari, e pietre dello stesso colore delle rocce attorno, dorate da millenni di sole. Davanti, l’immenso orizzonte blu del golfo di Manfredonia e del Mediterraneo; attorno, un gran silenzio rotto solo dai sonagli delle bestie al pascolo fra questi sassi. Luogo remoto e solitario l’abbazia di Santa Maria di Pulsano, come gravato dal peso della storia. Qui alla fine del VI secolo San Gregorio Magno, monaco e Papa, eresse un’abbazia in onore della Madonna. Nel secolo XII San Giovanni Pulsanese la ricostruì sulle rovine: e fu l’inizio di una serie di ben 40 fondazioni, in tutta Italia, dell’Ordine Pulsanese. Un terremoto nel 1646 distrusse quasi tutto, ma nuovi monaci ricostruirono. Di tutto ciò resta la chiesa abbaziale romanica, con l’altare che Papa Alessandro III consacrò nel 1177: altare quadrato, segno dell’anima bizantina del luogo. Restano, qui attorno, arrampicati fra le rocce, 24 eremi dove i primi monaci, latini e bizantini, facevano vita cenobitica. E grosse mura diroccate, con nascoste pietre che sono tesori: come quella che porta scritta un’armonia di note gotiche in un tetragramma, senza, però, la chiave; o come i simboli grafici della Gerusalemme celeste - la scala, la luce, la palma e la croce, densa teologia racchiusa in pochi tratti. I l visitatore si ferma, guarda questo smisurato orizzonte, si commuove ai segni della remota, tenace tradizione cristiana di Santa Maria di Pulsano. Eppure, ti spiegano, con la soppressione degli ordini religiosi, dopo l’editto Murat del 1809, l’abbazia si avviò al declino. Alla fine dei nostri anni ’80 era in abbandono: rifugio di bestiame, luogo di vandalismi e di furti. L’icona della Madonna Odigitria – 'colei che indica la strada' – che ancora era meta di pellegrinaggi popolari, fu rubata e mai più ritrovata. La notte bande di ragazzi andavano a ballare sul terrazzo dell’abbazia. Il terreno dei monaci era al centro di una faida tra famiglie rivali, un luogo ormai di paura. Lo stigma sacro del luogo sembrava perduto per sempre. Invece, un miracolo. All’inizio degli anni ’90 un gruppo di volontari della diocesi si mise al lavoro. Ripulirono l’abbazia da rovi, rifiuti, dalle povere ossa degli antichi monaci, che giacevano disperse sul terreno. L’allora vescovo di Manfredonia Vincenzo d’Addario riaprì la chiesa al culto, e chiamò dei monaci. Padre Piero e padre Efrem, giunti grazie all’amicizia con un docente dell’Università Urbaniana, il professor Tommaso Federici, sono rimasti qui. Piero, al secolo Piero Distante, 55 anni, oggi è l’abate. Laureato in Geologia, formatosi a Camaldoli, è un gigante con i capelli bianchi e una lunga barba candida, l’immagine ieratica da monaco orientale. «Quando siamo arrivati – racconta – fra le pietre di una grotta, arrotolato, trovammo la pagina di un libro. Era di un Evangeliario del 1100. I pastori usavano quelle pagine per accendere il fuoco». Fondata, distrutta e ogni volta volte rinata, l’abbazia di Pulsano. Tenace sulle sue rocce carsiche, sulle sue profonde grotte - in una delle quali si trova anche la sua chiesa. Oggi i due monaci diocesani osservano la regola di San Basilio e di San Benedetto. Ora et labora, con una particolare attenzione alla Parola. La Lectio Divina è aperta a chiunque voglia ascoltare, e, al lunedì, ai sacerdoti della diocesi. I monaci di Pulsano, però, sono soltanto in due. E attorno ci sono giardino, orto, olivi, frutteti, e bestie nelle stalle. Nella giornata segnata dal ritmo delle Ore, come trovare il tempo per tutto? Ma il monastero, dentro e fuori, è frequentato da numerosi volontari. Ci sono le donne di Monte Sant’Angelo che vengono a cucinare, e i pensionati che zappano nell’orto. Ci sono gli amici operai che vengono a fare gratuitamente manutenzione. Alle undici, sotto a un sole già cocente, il signor Matteo strappa le erbacce fra gli oleandri. In foresteria comanda Marilù, una gioviale anziana signora emiliana. Altri amici vengono a tenere corsi di iconografia, che richiamano alunni da tutta Europa. E anche questo è un miracolo, la collaborazione con i laici che col loro lavoro tengono in vita il monastero. L’abbazia come un cuore pulsante che offre, e riceve, dal popolo: esperimento affascinante di Chiesa viva. Capisci così le ragioni di padre Piero, quando ti spiega perché 19 anni fa scelse di venire qui: «Volevamo sperimentare una presenza monastica che fosse dono di Dio per la crescita del popolo. Proprio in una zona in cui questa presenza mancava da molto tempo». Certo, pensi, ci vuole del coraggio per rifondare una vita monastica in un luogo abbrutito e quasi dimenticato. In un luogo in cui il peso del tempo pareva avere vinto sulla memoria: su quelle centinaia di monaci ed eremiti che per secoli qui avevano vissuto di radici e bacche, e pregato. ( Tradizione vuole che in uno di questi eremi anche San Francesco, pellegrino nel Gargano, abbia soggiornato). Guardi dal cortile della abbazia i muri diroccati degli eremi più lontani, immagini il freddo e gli stenti, e la fede rocciosa dei primi monaci. Quale patrimonio è custodito fra queste pietre: e ti pare che una silenziosa forza ne emani, e costringa il visitatore a fermarsi, a riflettere, a fare memoria. Di visitatori ne incontri molti, a Pulsano. Turisti, ma anche gruppi di pellegrini e di famiglie che vengono qui a passare una giornata. Portano cibo che condividono con i monaci, in grandi tavolate. Come oggi: sono venuti in trenta, da Apricena, a pochi chilometri da qui, e si mangia tutti assieme, con i bambini che strillano e sciamano per la sala. Il formaggio è di qui, i fichi sono del frutteto: straordinari. A servire tutti, il mestolo in mano, è l’abate in persona: l’ospite per i benedettini è sacro. Guardi la tavolata e pensi a ciò che padre Piero ti ha appena detto: «Amore di Dio e amore dell’uomo, in verità sono gli unici due comandamenti». E lei e il suo confratello, domandi, che cosa dite alla gente che viene qui? «Una cosa, fondamentalmente: che Dio c’è, ed è un Dio di misericordia». C'è chi viene per imparare a dipingere icone («sono il segno di una Presenza, un modo per parlare di Dio», spiega l’abate) e chi per un ritiro. La foresteria è spartana, la vista dalle finestre meravigliosa. La giornata comincia col primissimo chiarore dell’alba, col Mattutino, alle cinque e mezza, e prosegue scandita dalle Ore fino a Compieta, quando la notte cala. Questa di oggi è notte di luna piena, e l’argento lunare sulle colline brulle è magico. Suonano così vicini i sonagli delle mandrie, appena oltre il vallone; abbaiano inquieti i cani. La croce dell’abbazia, illuminata, si vede da tutto il golfo di Manfredonia, e dal mare. Un posto per ritrovare se stessi, in una clausura che a tavola si fa fraterna condivisione. Al venerdì mattina, all’alba, ti accoglie in chiesa la forza del rito bizantino («Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale, abbi pietà di noi...») La memoria dei tempi in cui monaci latini e bizantini qui vivevano insieme si tramanda. Splendono nella chiesa gli ori delle icone, e San Michele Arcangelo si affaccia da una di esse, maestoso e guerriero. Pensi a queste mura costruite, distrutte e rialzate, e alle pietre in esse nascoste con i loro simboli millenari. E quella musica scolpita in un tetragramma senza chiave, chissà come suonava. L’abbazia di Pulsano è un nodo di fede e di storia di uomini, intricato e legato. In chi viene e rimane qualche ora o qualche giorno nasce il desiderio di poterlo, in una piccola parte almeno, decifrare.
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