sabato 21 marzo 2020
Gli effetti della pandemia di Covid-19 sulla realtà dei penitenziari e le soluzioni possibili
Disinnescare in modo sano la bomba-virus nelle carceri
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Non sarebbe intellettualmente onesto addebitare l’emergenza carceraria al rifiuto di recepire le parti qualificanti della riforma penitenziaria, che era stata parto culturale di quel grande concorso di esperienze e di professionalità rappresentato dal laboratorio degli Stati generali dell’esecuzione penale. Vi è, infatti, nell’attuale, gravissima crisi, un imponderabile e inedito elemento scatenante: la pandemia Covid-19. Ma neppure sarebbe intellettualmente onesto negare che, ove quella riforma fosse stata integralmente approvata, la situazione risulterebbe oggi molto più gestibile: è stata un’operazione sciaguratamente miope sacrificarne la parte qualificante sull’altare della 'certezza della pena', locuzione che in una stagione culturalmente lontana esprimeva una garanzia ed oggi suona come la minaccia di una inalterabile pena detentiva.


Non è questo il tempo delle recriminazioni; passata l’emergenza, però, vi dovrà essere quello della riflessione critica. Ora occorre intervenire, e subito: delle recentissime novità in materia contenute nel cosiddetto Decreto Cura Italia si deve apprezzare la direzione, ma non si può non sottolinearne l’assoluta inadeguatezza. Bisogna, infatti, almeno riportare la popolazione detenuta nei limiti della capienza ordinaria dei nostri penitenziari per ridurre il rischio che migliaia di persone vivano, impotenti, in quella sorta di stabulario che è divenuto il nostro carcere, soffocate dalla paura di non poter mettere in atto quelle che, come sentono ossessivamente ripetere, costituiscono le uniche vere contromisure per arginare il contagio: distanze, igiene personale, sanificazione dell’ambiente. Si tratta di un’ingiusta afflittività aggiuntiva. E se non si vuole farlo per un atto di giustizia, lo si faccia a tutela della sicurezza sociale, poiché se il virus comincia a circolare nelle vene penitenziarie sarà impossibile fermarlo alle mura del carcere.


Nell'emergenza di oggi è necessario agire per il bene delle persone coinvolte e di tutta la società. Intervenire con criterio sui flussi in entrata e in uscita dagli istituti di pena

Non si dica, come pure si dice, che in tal modo si premierebbero le violenze delle scorse settimane. I provvedimenti sono da prendere per necessità, non certo perché ci sono state le violenze; semmai queste - da condannare senza ambiguità alcuna e giustamente represse - ci sono state soprattutto perché non veniva preso alcun provvedimento. E prima ancora, perché non si era stabilito nessun canale comunicativo con le persone ristrette. Sarebbe stato importante spiegare (far comprendere ai detenuti le ragioni delle restrizioni); ascoltare (le loro esigenze e le loro paure); dimostrare che si stava facendo tutto il possibile per attenuare l’isolamento imposto, agevolando ogni contatto virtuale con i loro cari; assicurare che si sarebbero presto adottati provvedimenti per decongestionare l’ambiente carcerario e per cercare di consentire anche al suo interno le cautele necessarie per contrastare il contagio.

Adesso, comunque, si deve intervenire con urgenza: la situazione, infatti, già inaccettabile prima di questo tremendo virus, rischia ora di diventare drammatica. Non vi è un’unica soluzione, come pure in questo tempo di banalizzazioni e di visioni manichee molti sarebbero portati a pensare. Vi sono accorgimenti che, anche agendo sinergicamente, possono ridimensionare il rischio che la situazione diventi del tutto ingovernabile o addirittura esplosiva. Bisogna aver ben chiari quali siano gli effetti e quali le eventuali controindicazioni delle diverse opzioni. Si potrebbe innanzitutto intervenire sul flusso in entrata differendo (ad esempio, di sei mesi) l’emissione dell’ordine di esecuzione delle condanne non molto gravi; quanto meno di quelle sino a quattro anni, rispetto alle quali, di norma, già ora i condannati hanno diritto di attendere in libertà l’esito della loro richiesta di fruire di una misura alternativa al carcere. Si alleggerirebbe nell’immediato il carico della magistratura di sorveglianza e si eviterebbe il rischio che i cosiddetti 'nuovi giunti' introducano il contagio negli istituti.

Per agevolare il flusso in uscita, invece, si pensa normalmente a due tipologie di rimedi. Anzitutto a quelli che anticipa- no indiscriminatamente la dimissione di tutti i soggetti che hanno un ridotto residuo pena (ad esempio, ancora un anno da espiare). Si tratterebbe di ricorrere, in ragione della gravissima emergenza, a strumenti giuridici volti a conseguire - per esprimerci con ruvida franchezza - i risultati che deriverebbero da un indulto, per il quale non ci sono né i tempi, né i presupposti politici. Questa tipologia di rimedi ha il vantaggio di produrre un effetto immediato, ma la controindicazione di non selezionare sulla base della meritevolezza e soprattutto della affidabilità del singolo detenuto rimesso in libertà. Una dimissione selettiva dei condannati si può ottenere con la seconda tipologia di intervento, cioè mediante l’ampliamento della possibilità di accesso alle misure alternative al carcere, affidando alla magistratura di sorveglianza l’accertamento della sussistenza dei presupposti. Ove si scegliesse una simile linea di intervento, fruirebbero delle nuove opportunità soltanto i soggetti protagonisti di un credibile percorso rieducativo, ma si andrebbe incontro ad un sicuro intasamento dei ruoli della sorveglianza, con dilatazione dei tempi decisionali e valutazioni fatalmente meno ponderate.

Se la riforma del sistema carcerario fosse stata integralmente approvata, la situazione risulterebbe molto più gestibile: è stato miope sacrificarne la parte qualificante sull’altare della 'certezza della pena'
Per fare in modo che i provvedimenti diano risultati compatibili in termini di efficacia con la gravità della situazione (cioè: automatismo e tempestività) e non abbiano carattere indiscriminato (selettività) ci si potrebbe allora basare sulle valutazioni che la magistratura di sorveglianza ha già espresso nel periodo che ha preceduto l’attuale tsunami socio-sanitario. Si potrebbe, ad esempio, prevedere una sostanziosa, ulteriore riduzione di pena per chi nell’ultimo periodo (due anni? tre anni?) ne è già stato riconosciuto meritevole di liberazione anticipata ai sensi dell’art. 54 della Legge sull’ordinamento penitenziario. Si potrebbe anche immaginare di consentire a coloro che versano in tale condizione e che sono relativamente prossimi alla dimissione di 'monetizzare' immediatamente, ad esempio, i tre mesi di riduzione meritati nell’ultimo anno, godendo subito di questa sorta di parentesi di libertà, anziché di una anticipazione del fine pena. Si potrebbe consentire ai semiliberi (e agli ammessi al lavoro all’esterno), che da congruo tempo non hanno mai dato problemi nel loro andirivieni penitenziario, di non rientrare in carcere la sera, ma di trascorrere la notte, con obbligo penalmente sanzionato, nel proprio domicilio o in una struttura adeguata. Ed altro sarebbe possibile prevedere ancora sulla base dello stesso criterio: automatismo, per già accertata e consolidata meritevolezza. La disponibilità dei cosiddetti 'braccialetti elettronici' potrebbe consentire, inoltre, di ampliare ulteriormente la platea dei beneficiari a soggetti che non hanno ancora potuto dare prove di riabilitazione compiutamente rassicuranti.


Bisogna riportare subito la popolazione detenuta nei limiti della capienza ordinaria dei nostri penitenziari


L’importante è agire subito, con la consapevolezza che ancora una volta i provvedimenti che fanno bene alla popolazione penitenziaria fanno bene alla società tutta. A cominciare da chi con la realtà carceraria deve avere quotidiano contatto. Pensiamo soprattutto alle donne e agli uomini della polizia penitenziaria, che nella stragrande maggioranza svolgono la loro indispensabile funzione, con rispetto delle persone ristrette e consapevolezza della delicatezza del proprio ruolo; un compito assolto spesso in condizioni quasi impossibili per il degrado e l’affollamento dei nostri penitenziari; un servizio civile reso nell’ombra fisica del carcere e nell’ombra sociale del disinteresse collettivo.


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