Incendio a Porto Velho, Brasile, il 9 Settembre 2019 (Ansa/Epa)
Dici Amazzonia e pensi a una grande distesa di vegetazione custode di una varietà infinita di alberi, fiori, funghi, pesci, anfibi, mammiferi. E così è. Più grande di tutti gli Stati dell’Unione Europea messi insieme, l’Amazzonia ospita il 34% di tutte le foreste primarie del pianeta. Un unico bioma, ossia un unico sistema vivente, che ospita dal 30 al 40% di tutta la flora e la fauna terrestre. Con funzioni vitali per l’intero pianeta non solo per l’anidride carbonica che assorbe e per l’ossigeno che fornisce, ma anche per il contributo che la sua biodiversità dà alla nostra salute. Farmaci utili alla cura di malaria, glaucoma, leucemia e molte altre malattie, usano principi attivi provenienti dalla foresta amazzonica.
Ciò che invece tendiamo a dimenticare è che l’Amazzonia è anche casa di molte persone. E più che pensare a chi vive negli insediamenti urbani sorti lungo i fiumi che attraversano l’Amazzonia (circa 30 milioni di persone), il pensiero dovrebbe andare alle popolazioni ancestrali che a stento sono sopravvissute all’avanzata della colonizzazione moderna. Si stima che prima dell’arrivo degli europei, l’Amazzonia ospitasse da 6 a 12 milioni di indigeni. Molti di loro morirono al primo contatto con gli invasori, incapaci di difendersi dalle ma-lattie portate dai nuovi venuti. Altri invece finirono in schiavitù. Altri ancora si esiliarono nelle città avendo perso qualsiasi controllo sul proprio territorio.
Oggi si stima che la popolazione originaria e dispersa nella foresta amazzonica ammonti a 2,8 milioni di persone, spezzettata fra Colombia, Ecuador, Brasile, Perù. Nel nostro pressapochismo li etichettiamo semplicemente come 'indigeni', in realtà sono un insieme di popoli che parlano 240 lingue diverse e sono suddivisi in 390 gruppi etnici. Molti di loro confinati in isolamento volontario. I documenti preparatori del Sinodo sull’Amazzonia ci informano che 130 di questi popoli non hanno contatti con l’esterno, probabilmente come forma estrema di difesa contro il rischio di estinzione. Preoccupazione di cui lo stesso papa Francesco si è fatto interprete nel discorso tenuto a Puerto Maldonado nel gennaio 2018: «Probabilmente i popoli originari dell’Amazzonia non sono mai stati tanto minacciati nei loro territori come lo sono ora. L’Amazzonia è una terra disputata su diversi fronti: da una parte, il neo-estrattivismo e la forte pressione da parte di grandi interessi economici che dirigono la loro avidità sul petrolio, il gas, il legno, l’oro, le monocolture agro-industriali; dall’altra parte, la minaccia viene dalla perversione di certe politiche che pro- muovono la 'conservazione' della natura senza tenere conto dell’essere umano». Gli fa eco Raoni Metuktire, capo del popolo indigeno Kayapó, che in un discorso rivolto alle popolazioni ricche del mondo ha detto: «Da anni ci rivolgiamo a voi che avete arrecato così tanto danno alle nostre foreste. Ciò che state facendo cambierà il mondo intero: distruggerà la nostra casa, ma anche la vostra. Per chi lo fate? Dite per lo sviluppo, ma che razza di sviluppo è quello che porta via la ricchezza della foresta e la rimpiazza con una sola specie di piante o di animali?».
Così scopriamo che il saccheggio dell’Amazzonia ci conduce all’autodistruzione, non solo per la perdita di biodiversità e per l’aggravarsi della crisi climatica, ma anche e soprattutto per la perdita di visioni alternative che possono aiutarci a ritrovare la strada della sostenibilità. Per secoli le popolazioni amazzoniche hanno vissuto nella foresta prelevando da essa tutto ciò di cui avevano bisogno. Ma non l’hanno distrutta, semplicemente perché erano animate da una visione che produceva come risultato il rispetto. A differenza della nostra impostazione che invece ha prodotto come risultato il caos. Non per intenzionalità, ma per miopia e superbia. Il problema è la cosmologia: la visione che abbiamo di noi stessi, dei rapporti con le altre creature, del senso della vita. I tratti salienti della nostra civiltà sono linearità, meccanicismo, raziocinio, dualismo. Linearità come concezione del tempo che si muove in una sola direzione, una freccia orientata solo verso il futuro. Meccanicismo come idea di natura che funziona come una macchina basata su automatismi di tipo ripetitivo. Raziocinio portato all’estremo e inteso come metodo di analisi basato sulla frammentazione, con la tendenza a considerare vero solo ciò che è dimostrabile. Dualismo come realtà divisa in parti contrapposte: da una parte quella nobile pensante, dall’altra tutto il resto, dove la parte nobile, ossia il genere umano, ha il diritto di sottomettere tutto il resto, natura in testa.
Come risultato la linearità ha prodotto la perdita di radici, l’incapacità di valorizzare il passato, l’estromissione dei nostri predecessori dal banco di coloro che giudicano il nostro operare. Il meccanicismo ci ha indotto a vedere ogni corpo separato dall’altro facendoci credere che non esistano relazioni né interdipendenza. Il raziocinio ci ha spinto a concentrarci sui particolari facendoci perdere di vista il generale. Il dualismo ci ha fatto credere che potevamo intervenire sulla natura a nostro piacimento per costringerla a darci tutto ciò che volevamo. È l’antropocene, un tempo dominato dall’uomo tramite ciò che la Laudato si’ definisce paradigma tecnocratico. Una formula potente, che dal 1880 ad oggi è stata capace di far crescere il Pil mondiale di 23 volte. Ma al tempo stesso ha fatto esplodere le disuguaglianze e prodotto squilibri ambientali che mettono a rischio la nostra sopravvivenza.
Al paradigma tecnocratico, le popolazioni indios dell’Amazzonia, e più in generale dell’America Latina, contrappongono il ben-vivere. Una visione basata sulla convinzione che viviamo in uno stato di relazione permanente con tutto ciò che ci circonda, sia esso animato o inanimato, in terra o in cielo, passato o futuro. E poiché la condizione di ciascuno risente della condizione del tutto e al tempo stesso lo influenza, non si può analizzare il particolare senza tenere conto del generale, né si può agire sul particolare senza modificare il generale. In un rapporto di interrelazione permanente qualsiasi modifica in un punto si ripercuote su tutto il resto non solo in termini di spazio, ma anche di tempo. «Io sono te e tu sei me, siamo tutti parte della stessa tela, siamo parte della terra ed essa è parte di noi, siamo parte dell’universo e parte di un tutto», così sta scritto sulla parete di una scuola organizzata dall’Unicef in un angolo dell’Amazzonia.
Perciò la realtà non può essere affrontata con un pensiero lineare e parcellizzato, ma a spirale e sistemico, sapendo che l’agire senza tenere conto di ciò che ci circonda provoca caos, l’agire con attenzione provoca effetti positivi per tutti. Ed ecco il ben-vivere al tempo stesso visione cosmica, regola di vita e progetto sociale. Un progetto di armonia integrale con sé stessi, con la comunità, con la natura, nella consapevolezza che non esiste separazione fra individuo e collettività, natura e genere umano, presente e futuro. Un progetto basato sulla convinzione se stanno bene i singoli sta bene la comunità e se sta bene la comunità stanno bene i singoli. Perciò ad ognuno è richiesto di agire con responsabilità nei confronti della comunità e alla comunità di prendersi cura di ogni suo membro. E a tutti insieme è richiesto di prendersi cura della natura che a sua volta contraccambia permettendo a tutti di vivere bene. Un progetto di reciprocità che si integra col passato e guarda al futuro, nella convinzione che la terra ci è stata data in prestito dai nostri figli. I l Sinodo sull’Amazzonia che si è appena aperto è stato organizzato anche per questo: «per lasciarsi interrogare seriamente dalle periferie geografiche ed esistenziali» perché solo nel dialogo e nella contaminazione si possono trovare nuovi percorsi profetici.