Un placcaggio nel football americano (da Wikipedia commons)
La domanda è arrivata a primavera già iniziata, il che significa che quest’anno mio figlio era in ritardo. Ma il rito stagionale non è mancato, ineluttabile come il cambio dell’ora: «Mamma, papà, posso iscrivermi a football americano?». Finora abbiamo risposto di no. Fra la pallacanestro e lo skateboard, è stato facile spiegargli che uno sport in più sarebbe di troppo. A 11 anni, però, non molla facilmente. La stagione del basket sta per finire, insiste. Tutti i suoi amici si sono iscritti a football.
Lo capisco. Vivendo negli Stati Uniti, non mi sfugge che cosa attira un ragazzino a indossare l’armatura e ad abbracciare una palla ovale. Il cameratismo, il senso di far parte di una cultura condivisa da generazioni di americani, di comprenderne linguaggio e gesti. Di certo anche un volersi sentire più grande, più un 'duro'. Fino a una decina di anni fa, ben poche famiglie avrebbero negato ai loro preadolescenti quest’esperienza di passaggio. Ma le cose sono cambiate. Da quando gli scienziati hanno iniziato a collegare il football a danni cerebrali di lungo termine, il dibattito sul futuro dello sport è passato dai laboratori di ricerca ai tribunali, alle sale del Congresso, agli spogliatoi delle scuole, fino alle cucine degli americani.
Non siamo i soli a ricercare su Google i rischi di traumi cranici legati a questo sport anche a livello ricreativo. Stando a un recente sondaggio, quasi la metà dei genitori statunitensi non si sente a proprio agio nel permettere che i propri ragazzi imparino a placcare gli avversari, a causa degli effetti che i ripetuti impatti possono avere su un cervello in crescita. Il 48 percento degli americani ha già incoraggiato un figlio a praticare un altro sport: 8 punti percentuali in più rispetto alla stessa domanda posta quattro anni fa, stando alla ricerca di NBC News e Wall Street Journal.
I timori delle famiglie si stanno riflettendo in una riduzione del numero di studenti che giocano a football. Mentre oggi 600mila ragazzi in più praticano sport negli Usa rispetto al 2001, il football è l’unica disciplina che ha visto un calo nella partecipazione. Anche se resta l’attività più comune fra i maschi nei licei statunitensi, è passato da oltre 1 milione e 100mila nel 2008 (l’anno in cui sono cominciate ad emergere notizie di ex quarterbacks professionisti che soffrivano di disturbi dovuti ai microtraumi ripetuti, disturbi che andavano dalla depressione all’aumento dell’aggressività) a un milione circa nel 2017.
Un segno che le famiglie si stanno interrogando sulla pericolosità del gioco è anche l’incremento delle battaglie legali tra coppie divorziate, quando uno dei due genitori vuole impedire ai suoi figli di scendere in campo. La maggior parte delle controversie si risolvono senza un processo, ma il New York Times recentemente ha scritto che un terzo degli avvocati di 40 Stati Usa ha notato un aumento delle cause di custodia incentrate sul permesso di dedicarsi al football.
I tribunali americani sono impegnati anche in maratone legali di ben più alto profilo che hanno messo in discussione il modo in cui le concussions (parola diventata tristemente di moda), ovvero le commozioni cerebrali, sono affrontate nello sport a livello professionistico e universitario. Migliaia di atleti hanno citato in giudizio la NFL, la lega professionistica del football, che si è impegnata a compensare con oltre 1 miliardo di dollari gli atleti. Un accordo provvisorio con la NCAA, la lega universitaria dello sport, nel frattempo, ha creato un fondo da 70 milioni di dollari per esaminare migliaia di atleti di oggi e del passato e documentare le conseguenze dei traumi cerebrali, dopo atleti famosi hanno mostrato comportamenti anomali che potrebbero essere imputati alle conseguenze delle concussions, non ultime violenze domestiche ai danni delle compagne.
I programmi per i giovani si sono adeguati, cominciando a sottoporre gli allenatori a una formazione specifica affinché imparino a individuare i sintomi di una commozione cerebrale, e i produttori di caschi stanno introducendo sul mercato nuovi modelli con la speranza che riducano la forza degli urti. Ma la ricerca non è conclusiva sulla loro efficacia. Anche la comunità medica, in particolare i pediatri, cerca di adattarsi, trovando il modo di trasformare i primi studi scientifici che emergono in consigli concreti per genitori, allenatori e consigli scolastici. Un medico, Paul Echlin, ha di recente fatto scalpore sostenendo che «nessun bambino può essere eticamente autorizzato a giocare a football se pratica i placcaggi». Mentre un noto commentatore del Washington Post, George Will, si è spinto a sostenere che «il corpo umano non è fatto per il football».
Uno studio pubblicato lo scorso giugno sulla rivista Pediatrics ha stimato che tra 1,1 e 1,9 milioni di traumi cranici correlati a sport e attività ricreative si verificano annualmente in bambini statunitensi minori di 18 anni. Il problema, per molti padri e molte madri, è che il rischio di botte alla testa, che non sono rare anche in altri sport, è aggravato da una cultura della performance a tutti i costi, che spinge i ragazzi a tornare sul campo il prima possibile dopo un incidente. Una realtà nota John Orsini, un padre che si è rivolto a un giudice perché impedisca al più giovane dei suoi tre figli di continuare a giocare, nonostante il permesso dell’ex moglie. Orsini ha visto il ragazzo accasciarsi a tavola durante i pasti in seguito a uno scontro con un altro atleta e tornare a giocare una settimana dopo con il nulla osta del medico della squadra.
Le associazioni di football giovanile hanno preso misure per eliminare situazioni simili, creando un programma specifico per la prevenzione degli infortuni, il Heads Up Football. In uno studio del Datalys Center for Sports Injury Research and Prevention, i campionati giovanili che partecipano all’iniziativa hanno mostrato una riduzione del 76% degli incidenti rispetto a quelli che non lo fanno. Ma le preoccupazioni dei genitori rimangono. Quanto a noi, la soluzione che abbiamo trovato, per il momento, è di permettere a nostro figlio di giocare per una stagione, in via sperimentale, a 'flag football', la versione dello sport senza placcaggi. È un modo di lasciargli provare l’emozione della meta, mentre continuiamo a documentarci e ad osservarlo. Sperando che il prossimo anno ci chieda di tentare le selezioni per la squadra di atletica. O di pallavolo.