Il contributo di Ugo De Siervo pubblicato qui di seguito uscirà nei prossimi giorni come editoriale di Dialoghi (n. 3-2015), il trimestrale dell’Azione Cattolica Italiana. Lo stesso De Siervo, presidente emerito della Corte Costituzionale e alla guida del Consiglio Scientifico dell’Istituto "Giuseppe Toniolo", presiede oggi pomeriggio a Roma (Domus Mariae, h.16-20) il convegno «Quali sfide per il diritto internazionale della pace?». Dopo il saluto di Matteo Truffelli, presidente dell’Azione Cattolica, interverrà monsignor Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede. Seguirà una tavola rotonda con Paolo Benvenuti (Università Roma Tre), Vincenzo Buonomo (Pontificia Università Lateranense), Ugo Villani (Università di Bari), Francesco Viola (Università di Palermo).
I Paesi aderenti all’Unione europea da settant’anni non conoscono guerre fra loro, malgrado la loro storia precedente avesse registrato per tutta l’epoca moderna e contemporanea continue e gravissime vicende belliche (fino alle due guerre mondiali), tali da mettere perfino più volte a rischio lo stesso destino delle loro popolazioni: probabilmente per merito dei pur faticosi processi di federalizzazione europea e dell’estrema pericolosità a livello mondiale di eventi bellici del genere, guerre internazionali e guerre civili sono apparse in Europa solo al di fuori dei confini dell’Unione (da ultimo si pensi ai paesi dell’ex-Jugoslavia, agli Stati caucasici, al caso ucraino). Invece, da almeno alcuni anni, eventi del genere si sono moltiplicati anche appena al di là dei confini europei: si producono così molteplici gravi conseguenze a causa delle tanto forti interdipendenze fra le diverse regioni del mondo; ma comunque poi esistono ineludibili responsabilità di tutti noi, appartenenti alle aree più privilegiate, verso la sorte di tanti fratelli meno fortunati. Il panorama esistente appare davvero grave e preoccupante. Circa un terzo degli Stati esistenti (oltre sessanta) sono attualmente coinvolti in vere e proprie guerre internazionali o sono impegnati in gravi guerre civili, tanto da non riuscire a controllare parti significative dei loro territori. La crescente diffusione di questi fenomeni e l’estrema gravità dei danni prodotti sulle popolazioni e sulle attività economiche, spesso con la distruzione sistematica di ogni struttura e attività esistente, ben al di là degli apparati militari, produce evidenti effetti anche sul piano della fuga di tantissime persone dai loro paesi e del conseguente imponente incremento dei flussi migratori, che ora tanto preoccupa i paesi europei. Addirittura, dato il non raro coinvolgimento, almeno indiretto, dei massimi Stati esistenti in tante di queste vicende, si è addirittura parlato dell’esistenza di una non dichiarata terza guerra mondiale. Per di più si tratta di vicende belliche che spesso appaiono senza regola alcuna: diffuse gravi crudeltà sui civili e sui combattenti; popolazioni civili sostanzialmente detenute o deportate, se non destinate a veri e propri genocidi; uso improprio di armamenti, di tecniche belliche, di controlli e di condizionamenti delle libertà individuali e collettive. Non solo alcune delle peggiori prassi ereditate dal passato continuano (l’uso di armi di distruzione di massa; le popolazioni civili, spesso concentrate in enormi campi profughi, che divengono ostaggio dei diversi combattenti; il terrore usato come strumento di controllo sociale; l’uso di forme di rappresaglia), ma le continue innovazioni tecnologiche hanno prodotto sempre nuovi e più potenti strumenti bellici, di intromissione e controllo, di condizionamento delle libertà dei soggetti ritenuti avversari. Basti pensare alla recente diffusione dell’uso bellico dei droni, alla detenzione senza regole di alcuni gruppi di avversari, all’utilizzazione bellica di alcune tecnologie informatiche. Non solo le grandi speranze di una grande stagione di pace successive al disfacimento dell’Urss si sono dimostrate vane, ma anzi tante vicende internazionali che si sono succedute negli ultimi decenni paradossalmente hanno contribuito a produrre una pericolosa diffusione di guerre, interne e internazionali, o di nuove e gravi forme di terrorismo, anche con la contemporanea vistosa caduta di non poche regole che l’ordinamento internazionale e alcuni ordinamenti costituzionali avevano faticosamente prodotto per contenere, se non per disciplinare, alcuni degli aspetti più gravi dei confronti bellici e delle attività ad essi collegate. D’altra parte anche in precedenza non mancavano certo alcuni casi di anche prolungata e clamorosa disapplicazione delle normative e delle regole internazionali (basti pensare alle tragiche vicende palestinesi, al sostegno occulto di guerriglie o alle varie deroghe alle norme contro la proliferazione degli armamenti atomici). Ma, almeno in qualche misura, la pur durissima e pericolosa articolazione delle diverse aree di influenza fra 'mondo occidentale' e 'mondo comunista' riusciva a contenere l’emergere di nuovi protagonisti, impediva il formarsi di vuoti di potere e riduceva fortemente il sorgere di ulteriori contrapposizioni espressive di particolarismi territoriali, etnici o culturali, vecchi o nuovi. Invece la caduta dei precedenti sistemi di alleanze, se ha posto le premesse per la possibile liberazione di tanti popoli, ha lasciato inevitabilmente molti nuovi spazi ai nuovi soggetti forti sul piano finanziario, militare o anche solo ideale (dai grandi paesi in via di sviluppo, alle maggiori potenze petrolifere, ai paesi islamici e ad Israele, alle tante comunità etniche, ad alcuni antichi Stati coloniali). E questo senza neanche pensare alle situazioni sorte in alcune aree territoriali per la forza di alcuni gruppi terroristici e perfino criminali. Ciò mentre le due superpotenze hanno dovuto reinventarsi le loro politiche estere, non di rado però anche assumendo iniziative inadeguate, se non pericolose: e se gli Usa hanno alternato fasi decisamente interventiste di tipo militare a fasi di più prudente (ma pur sempre pesante) esercizio della politica estera tramite il loro tanto forte peso diplomatico, economico e militare, la federazione russa ha cercato di soddisfare le diffuse frustrazioni nazionalistiche dei suoi ristretti gruppi dirigenti tramite evidenti pressioni e interventi su vari scacchieri internazionali, alcune volte perfino in forma militare diretta, ma più spesso ancora in forma indiretta tramite i suoi rilevanti poteri economici e la stessa fornitura di armamenti e sostegni di tipo militare. Ciò mentre l’Onu appare sempre più impotente e troppo spesso bloccata dai diversi poteri di veto delle potenze che dominano i suoi organi. Gli stessi, pur apprezzabili, tentativi di edificare organi giudiziari internazionali per colpire le maggiori responsabilità penali internazionali appaiono ancora troppo marginali. Tutto ciò contribuisce a produrre una larga diffusione di gravi eventi bellici, con pericoli crescenti di coinvolgimenti di nuovi soggetti e istituzioni, date le pesantissime ricadute sulle popolazioni, sull’economia di intere aree e sulle concatenazioni delle alleanze. Ma soprattutto quello che colpisce sono una serie di veri e propri vistosi regressi che si sono registrati nelle pur già tragiche caratteristiche delle guerre contemporanee: anzitutto sempre più sono i popoli gli oggetti principali delle distruzioni belliche, piuttosto che le stesse strutture militari; sembrano non esistere più limiti all’uso di armamenti di ogni tipo; riprende vigore l’uso delle più efferate crudeltà sugli avversari ed i prigionieri; sembra esistere un’assoluta continuità fra le responsabilità di tipo penale ed i comportamenti degli avversari bellici; le determinazioni di usare veri e propri armamenti bellici vengono spesso assunte anche al di fuori di procedure pubbliche e formalizzate. Parallelamente mutano perfino le caratteristiche delle forze armate, che oscillano fra una sempre più spinta professionalizzazione (anche con l’eliminazione delle leve obbligatorie) e la loro integrazione o sostituzione da parte di mercenari o di insorti locali. Piuttosto che puntare alla pericolosa utilizzazione di alleanze militari, nuove o vecchie (come quelle perfino con alcuni antichi Stati coloniali), occorre promuovere anzitutto un protagonismo molto maggiore degli organismi sovranazionali, a cominciare dall’Onu e dalle diverse organizzazioni 'regionali', a cominciare dall’Unione europea. Occorrono, infatti, politiche estere assai più attive nella progressiva riduzione delle guerre esistenti e soprattutto nella prevenzione delle cause che le producono o le alimentano: proprio la recente esperienza europea potrebbe insegnare molto. Soprattutto occorre riaffermare energicamente che il fondamento ultimo degli ordinamenti democratici e della necessaria convivenza fra i diversi Stati sta nel pieno rispetto e nell’effettiva valorizzazione dei valori delle persone e dei gruppi sociali a cui esse aderiscono liberamente; è alla concreta realizzazione di questa finalità che va commisurato ogni altro elemento della vita associata, come lo sviluppo economico e sociale, il funzionamento dell’ordinamento democratico, la stessa garanzia dell’esistenza di efficaci strumenti di sicurezza.