mercoledì 6 settembre 2017
Ha radici profonde il fenomeno deflagrato con Internet
Dietro le «fake news» una storia che riporta sino all’antica Grecia
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Con le false notizie il problema è che non smettono di essere notizie per il fatto di essere false. Non sono documentate né documentabili, ma non diversamente dalle notizie vere formano mentalità e impongono opinioni. Spesso le consolidano, di norma le presuppongono. «Una falsa notizia – scriveva nel 1921 lo storico Marc Bloch – nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita; essa solo apparentemente è fortuita o, più precisamente, tutto ciò che in essa vi è di fortuito è l’incidente iniziale, assolutamente insignificante, che fa scattare il lavoro dell’immaginazione; ma questa messa in moto ha luogo soltanto perché le immaginazioni sono già preparate e in silenzioso fermento». Bloch inserisce queste notazioni in un saggio ispirato anche alla sua esperienza di combattente nella Prima guerra mondiale, ma il fenomeno che descrive (oggi universalmente noto come fake news) è molto più antico. Se ne trovano tracce già nell’antichità, come ha ribadito a più riprese Luciano Canfora, per esempio attraverso l’analisi della lettera, riprodotta da Tucidide nel primo libro della Guerra del Peloponneso, nella quale il generale spartano Pausania metterebbe nero su bianco la sua intenzione di tradire i greci per passare al servizio di Serse, il Gran Re dei persiani. «La lettera è in qualunque epoca il genere falsificabile per eccellenza», avverte Canfora, ricordando come sulla base di questa missiva, o di altre molto simili, Pausania sia stato effettivamente riconosciuto colpevole di alto tradimento. Anche in quel caso, la verosimiglianza del documento ha avuto la meglio sulla sua eventuale veridicità.

Fin qui siamo nell’ambito della corrispondenza privata, resa disponibile con relativa tempestività da un ricercatore che si proclama indipendente. Questo non basta a fare di Tucidide il Julian Assange del V secolo avanti Cristo, ma può aiutarci a mettere in prospettiva storica, e di conseguenza critica, il procedimento su cui si basa la logica di Wikileaks. Il presupposto sembrerebbe l’esatto contrario della falsificazione (l’assoluta trasparenza, l’esposizione pubblica del segreto di Stato eccetera), ma la sostanziale indifferenza rispetto al contenuto della rivelazione apre la strada agli utilizzi più contraddittori da parte delle istituzioni che si vorrebbero porre sotto accusa. Una volta reso noto, il tal quale dei server di posta elettronica restituisce di tutto, e tutto può essere interpretato in qualsiasi modo, come ha dimostrato il gioco di informazioni e controinformazioni del cosiddetto Russiagate. C erto, qui ci entrano in campo tradizioni poderose, la disinformazia di origine sovietica e la propaganda statunitense, ma a ingigantire ulteriormente il fenomeno è il turbinoso assetto dei media digitali, che viralizza le notizie senza preoccuparsi di verificarle. Disinformazia, del resto, è il titolo di un polemico pamphlet di Francesco Nicodemo (Marsilio), analisi tutt’altro che rassicurante sugli effetti che un decennio abbondante di social media ha avuto sulla nostra credulità. Più conciliante, in certa misura, la posizione di Andrea Fontana, che in Io credo alle sirene (Hoepli) suggerisce qualche accorgimento per non soccombere in un contesto informativo del quale le fake news fanno ormai parte integrante.

Anche sulla tecnologia, però, occorre intendersi. Facebook e compagni sono un acceleratore formidabile, ma il punto di partenza rimane quello indicato da Bloch: si crede a quello in cui già prima si voleva credere. La paura, in questo senso, è una componente essenziale del processo. Un caso esemplare (e molto divertente, tra l’altro) si trova nell’Antiquario, un romanzo di Walter Scott risalente addirittura al 1816. Ambientato in Scozia nell’estate del 1794, mentre sul continente imperversano gli scontri tra l’esercito rivoluzionario francese e la Prima coalizione, il racconto rielabora un episodio avvenuto in realtà nel 1804, quando per l’errore di una guardia costiera si sparse la voce che le truppe di Napoleone stessero sbarcando in Inghilterra. Più dell’equivoco in sé, a interessarci è il meccanismo che lo ha generato. Il sistema di comunicazione impiegato alla fine del XVIII secolo è ancora lo stesso descritto da Eschilo nell’Agamennone (458 a.C.) e poi ripreso da J.R.R. Tolkien nel Signore degli Anelli: una serie di postazioni a distanza di sguardo l’una dell’altra, l’accensione di un fuoco come segnale convenuto, la propagazione dell’avviso in tempo quasi reale. Scott immagina che a scatenare il panico sia un falò improvvidamente allestito in piena notte dai protagonisti dell’Antiquario e, così facendo, ci mostra come anche un dispositivo informativo di assoluta semplicità sia sempre e comunque passibile di travisamento e manipolazione.

È un rischio che aumenta con l’aumentare della complessità. Nel 1844, quando non sono trascorsi ancora trent’anni dalla pubblicazione del romanzo di Scott, lo scenario è già profondamente mutato. Per essere più precisi, lo era già nel 1838, l’anno in cui culmina l’intricata trama del Conte di Montecristo di Alexandre Dumas. Edmond Dantès, com’è noto, è tornato per vendicarsi e tra le armi di cui intende avvalersi c’è anche quella del dissesto finanziario. Uno dei suoi nemici, il barone Danglars, ha una moglie che ama giocare in Borsa, sfruttando spesso le informazioni che le vengono anticipate dall’amante, ben introdotto al Ministero degli Interni. Per far cadere la donna in un investimento avventato, Dantès va di persona a una stazione del telegrafo alle porte di Parigi, corrompe l’addetto alle trasmissioni e diffonde in questo modo una notizia del tutto destituita di fondamento, quella del ritorno dall’esilio del pretendente al trono di Spagna, Don Carlos di Borbone.

Piano modernissimo, che mescola fake news e insider trading, per la cui riuscita è però indispensabile un elemento abbastanza sorprendente: l’addetto al telegrafo non conosce il codice di cui si serve, è in grado di decifrare un paio di informazioni elementari che riguardano la gestione del servizio e per il resto si limita a riprodurre meccanicamente il segnale che gli viene inviato. Sia pure aggiornato sul versante tecnico, il sistema è lo stesso dei fuochi di Eschilo, Scott e Tolkien. Dantès fa propagare una notizia falsa, ma il soggetto che la propaga è ignaro del contenuto del messaggio e quindi si comporta né più né meno come un algoritmo, indifferente all’identità e all’attendibilità dell’autore di un determinato tweet. Più fitta è la catena, più è sufficiente indebolirne un solo anello per renderla inaffidabile.

La baronessa Danglars casca nel tranello, e forse non potrebbe fare altrimenti. Prima di essere falsamente annunciata, infatti, la riscossa di Don Carlos era stata oggetto di mormorii e illazioni, attraverso il rimando incrociato fra bruits publics (voci della strada) e dispacci giornalistici, studiato con illuminante intelligenza dallo storico Robert Darnton. Ma la falsa notizia messa in circolo da Dantès non è soltanto plausibile. La sua efficacia sta nella capacità di adattarsi alle aspettative della persona a cui è destinata, nella fattispecie l’avida nobildonna speculatrice. Il più delle volte è difficile, se non impossibile, sapere chi e perché si sta prendendo l’incomodo di fabbricare e spacciare fake news. Noi non li conosciamo, i signori della disinformazia, ma di sicuro loro conoscono noi: le nostre paure, i nostri pregiudizi, il nostro oscuro desiderio di lasciarci ingannare.

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