Don Stefano Trevisan il giorno dell'ordinazione - Irene Argentiero
Perché mai un giovane che è riuscito a coronare il sogno coltivato fin dalla più tenera infanzia ed è diventato maestro di sci sulle piste dell’Alto Adige dovrebbe scegliere di andare in Sud Sudan, tra i villaggi dove manca tutto e dove il sogno più grande delle persone è quello di poter avere ciò che serve per vivere? La risposta è forse un mistero, come misterioso è il cuore umano, mosso sempre dalla passione ma non sempre forse quella giusta. Comprendere le ragioni di chi pare rinunciare a se stesso per qualcosa di più grande che non è misurabile e quantificabile significherebbe riuscire a cogliere, ad esempio, quella scintilla che in questo momento in Italia sta portando più di cinquemila seminaristi (tra diocesani e religiosi) verso il sacerdozio. E ancora altre migliaia di ragazzi e ragazze a intraprendere un cammino di discernimento verso la vita religiosa. Vocazioni giovani, in controtendenza rispetto al “sentire comune” del mondo che cercheremo di indagare raccontando quattro vicende personali.
La risposta, anzi le risposte, ognuna diversa e unica, infatti, stanno soprattutto nella storia di chi la scelta l’ha fatta e la sta vivendo, con tutti i suoi carichi emotivi, con tutte le sue potenzialità, con i dubbi, le speranze e l’entusiasmo di sentirsi trascinati in qualcosa di più grande. E in qualcosa di davvero “mondiale” si è sentito trascinato don Stefano Trevisan, sacerdote da poche settimane, missionario comboniano, ladino, ex maestro di sci. Ha 36 anni e – coronavirus permettendo – è destinato a vivere il proprio apostolato da testimone del Vangelo, religioso e prete in Sud Sudan. Originario di San Vigilio di Marebbe, in Val Badia, Stefano racconta la sua vicenda personale con la pacatezza e il riserbo tipici della sua terra, ma pian piano si scopre che la sua vocazione ha radici ben piantate e coniuga davvero tutte le passioni respirate in casa fin da piccolo. A partire da quella “mondialità” che il papà Adriano gli ha mostrato per anni, con il suo lavoro per mare in giro ai quattro angoli del pianeta. L’incontro tra questo marinaio piemontese, originario del Biellese, con Patrizia, ladina di San Vigilio di Marebbe, avviene a Londra e Stefano è il loro primo figlio, poi arriva Chiara, la sorella minore.
Nato e vissuto in Val Badia, don Trevisan gareggiava
«Da ragazzo mi piaceva molto sciare e gareggiavo nello Sci Club del mio paese – racconta don Stefano –. Una volta maggiorenne ho fatto l’esame per diventare maestro di sci e grazie agli allenamenti con mio zio sono riuscito a superarlo. È stata una gioia grande e quel lavoro mi pia- ceva e mi piace ancora molto. Gli anni della mia gioventù li ho passati nel mio paese, unica eccezione le scuole medie fatte in collegio nell’abbazia di Novacella, vicino a Bressanone. Dopo le scuole superiori a Brunico e a Bolzano mi sono iscritto all’università a Bologna, ma dopo un anno sono tornato a casa perché ho visto che non era la mia strada. In estate ho fatto alcuni lavori saltuari come grafico, muratore, bagnino, segretario, lavorando in un pastifico; varie attività che mi hanno fatto crescere e maturare». Insomma a Stefano le cose andavano bene, le occasioni non mancavano, la sua terra gli offriva di che vivere e alimentava i suoi sogni. Ma qualcosa stava lavorando dentro di lui. «Avevo un lavoro, amici, soldi, divertimento, tutto quello che mi serviva per stare bene ma nonostante ciò mi sentivo inquieto e non del tutto realizzato».
Abituato ad avere uno sguardo sul mondo, Stefano non resta insensibile davanti alle immagini che gli arrivavano attraverso i media: «Vedevo e sentivo di tante persone che erano costrette a vivere in condizioni veramente difficili, di povertà e degrado, situazioni al limite dell’umanità. È così che ho deciso di fare un’esperienza di volontariato in Africa. Ho contattato il centro missionario della diocesi di Bolzano-Bressanone e l’allora vicedirettrice, Paola Vismara, mi ha dato la possibilità di andare in Sud Sudan, a Lomin, al confine con l’Uganda dove lavorava un missionario comboniano di Rio di Pusteria, fratel Erich Fischnaller».
Nei tre mesi che Stefano passa nel cuore del-l’Africa, l’Africa gli entra nel cuore: quella vita in mezzo ai poveri gli apre una nuova prospettiva. La vocazione comincia a dare i primi segnali e l’idea della missione come scelta di vita si affaccia nella sua vita. Ma anche questo in realtà non basta, perché in Sud Sudan, oltre a incontrare le persone, Stefano incontra anche «una Persona in particolare» dalla quale si sente amato e chiamato, come rivela lui stesso: «Gesù si è reso presente quando meno me lo aspettavo. È stato un incontro che ha fatto cambiare direzione alla mia vita e una volta tornato a casa ho detto ai miei genitori che volevo diventare missionario». I nizia così il cammino, piano piano, all’inizio senza troppi scossoni, ma con una scelta radicale all’orizzonte: «Quell’inverno lavorai ancora come maestro di sci e una volta al mese andavo a Padova dai missionari Comboniani dove per un anno ho fatto il percorso Gim (Giovani impegno missionario)». Si tratta di una prima esperienza di sensibilizzazione ai temi della missione, della vocazione e dell’impegno a favore degli ultimi: «Ho usato questo tempo per approfondire l’esperienza vissuta in Africa e per riflettere sulla chiamata alla vita missionaria. L’anno seguente, a 26 anni, sono entrato nel Postulato a Padova dove sono rimasto due anni, compiendo anche gli studi del biennio filosofico ». Poi è la volta del noviziato: due anni in Portogallo «per approfondire la vita di preghiera, la storia del nostro fondatore, san Daniele Comboni, e il carisma dell’Istituto. È stata una grande sfida – rivela pa- dre Stefano – anche perché durante questo tempo non sono mai tornato a casa e anche i contatti con l’esterno erano limitati ». Il 24 maggio 2014 arriva la prima professione religiosa nella Famiglia Comboniana, dopo la quale Stefano viene destinato allo scolasticato di Napoli per gli studi di teologia. Nella città partenopea il comboniano ladino resta cinque anni, vivendo in una comunità dal volto internazionale: 18 persone da 14 Paesi diversi.
Accanto allo studio, che lo porta sui temi dell’incontro tra fedi e culture, Stefano svolge l’attività pastorale a Castel Volturno, dove la percentuale di stranieri, soprattutto dalla Nigeria e dal Ghana, è elevata: in mezzo a loro e per loro da 20 anni i Missionari Comboniani gestiscono una parrocchia. Il lavoro più delicato, in realtà, è accanto ai figli degli immigrati africani, le seconde generazioni: «Non sono mai stati in Africa ma non possono fare a meno di fare i conti con le proprie radici». In questa periferia campana Stefano ha già trovato un pezzo della sua Africa, ma il cammino non si può fermare, perché i più poveri dei poveri continuano a far sentire la loro voce e la loro richiesta.
E così anche il cammino di Stefano continua arrivando, il 21 luglio 2019, ai voti perpetui e, una settimana dopo, all’ordinazione diaconale: sono i segni più concreti del sì definitivo a Dio. L’inquietudine nata in mezzo alle piste da sci, in mezzo alla bellezza sconfinata delle montagne della Val Badia, ha trovato finalmente una risposta, la risposta di Stefano e per Stefano. Il giovane prete ladino, figlio di una terra arricchita dalle differenze anche di cultura e di lingua, ha saputo fare tesoro di questa ricchezza offrendola agli ultimi tra gli ultimi, anche se sa che il cammino nel cuore di Dio riserva sempre delle sorprese. Come l’intoppo del rinvio dell’ordinazione sacerdotale a causa dell’emergenza coronavirus. Alla fine, il 28 giugno scorso, il vescovo di Bolzano-Bressanone, Ivo Muser, lo ha consacrato presbitero. Un sogno coronato? Forse sarebbe meglio definirlo un sogno che continua e padre Stefano Trevisan, dopo un periodo formativo in Irlanda, condividerà in Sud Sudan con gli ultimi della Terra.