Il bellissimo film-documentario sulla tragedia di Chernobyl tramesso in questi giorni in tv ci racconta di una riunione decisiva per le sorti di milioni di persone che si svolge a Pripyat, la cittadina-dormitorio a 3 chilometri da Chernobyl, nelle ore immediatamente successive alla catastrofe.
La fisica nucleare bielorussa Ulana Khomyuk ha scoperto come il primo tentativo di spegnere l’incendio (gettando boro e sabbia sul reattore) rischia di creare una catastrofe e una seconda esplosione in caso di contatto del materiale radioattivo con l’acqua nel seminterrato sotto il reattore, esplosione che metterebbe a rischio la vita di milioni di persone. Per evitarla è necessario che un manipolo di tecnici che conosce la mappa della centrale entri nell’impianto e dreni l’acqua delle vasche. È per questo motivo che Boris Shcherbina, il capo della commissione governativa istituita dal Cremlino, riunisce in una stanza un centinaio di tecnici della centrale. E in un’atmosfera molto tesa chiede se ci sono volontari per quella difficilissima operazione. Per cercare di sollecitare adesioni Shcherbina fa una proposta: 400 rubli il premio per chi si rende disponibile e una promozione sul campo. Seguono secondi di silenzio. Poi uno dei tecnici ha il coraggio di rispondere.
Lo sappiamo che chi andrà nell’impianto sarà condannato a morte, le sembra che 400 rubli e una promozione possano bastare? Shcherbina a questo punto cambia argomento e registro e condivide la realtà dei fatti con i presenti. L’operazione è essenziale se si vuole evitare una seconda esplosione che porterà la radioattività a livelli molto peggiori uccidendo nel tempo milioni di persone e contaminando acqua e cibo per decenni nei Paesi vicini. È a questo punto che Alexei Ananenko, Valeri Bezpalov e Boris Baranov si alzano e si rendono volontari accettando una missione che metterà a rischio le loro vite. Lo diciamo da anni: l’uomo è cercatore di senso prima di essere homo oeconomicuso massimizzatore di utilità, di denaro o di piaceri.
La motivazione più profonda del nostro agire è quella della generatività, ovvero del valore che la nostra azione, le nostre scelte avranno sulla vita di altri esseri umani. Alexei Ananenko, Valeri Bezpalov e Boris Baranov si mettono in gioco sapendo il prezzo che pagheranno non per 400 rubli ma quando si rendono conto che la loro azione potrà salvare milioni di persone. A maggior ragione, in azioni generative in cui la nostra vita non è a rischio, la generatività è la radice della soddisfazione e della ricchezza di senso del vivere. In scala diversa la questione si è riproposta nei giorni del Covid-19.
Con un bando per 500 infermieri nell’area di crisi a cui hanno risposto 9.400 domande. Con cittadini che si sono resi volontari per sperimentare il vaccino. E con molti medici che non avevano alcun bisogno che si sono resi volontari per andare a dare una mano negli ospedali più colpiti dall’emergenza. Economia, scienze sociali e politica oggi troppo concentrate sulla visione dell’homo oeconomicus dovrebbero imparare la lezione. Azioni, scelte, preferenze politiche dipendono innanzitutto dalla ricerca di senso.
E la prima forma di competizione tra forze politiche e tra imprese dipende dall’offerta di senso. La cultura occidentale, sposando una visione sempre più povera di senso, ha aumentato la sua vulnerabilità e il fascino di offerte fondate su valori antitetici alla nostra tradizione o su false verità. La 'potatura' della pandemia è una grande occasione per procedere alla fondazione di un senso più profondo della vita sociale ed economica dove generatività, valore delle relazioni, ricchezza di senso siano al centro dell’attività d’impresa e del welfare. Dietro la responsabilità sociale, oggi tanto di moda, c’è anche e soprattutto questo.