Caro direttore,
sono nato in una modesta famiglia di campagna, e lì, dove le stelle, durante le veglie, brillano più lucenti, è più forte il sentimento del Creato; sentivamo l’universo echeggiare dentro di noi, sentivamo intuitivamente le grandi regole della sua armonia. Nella mia vita ho sempre desiderato porre l’etica e il rispetto della dignità umana fra gli ideali più alti, e da tale aspirazione ho cercato di generare la mia attività di imprenditore del cashmere, attento per quanto ho potuto a produrre senza provocare danni al Creato, a mantenere costante l’armonia tra il profitto e il dono. Leggendo Kierkegaard ho avuto conferma che le persone umane sono al tempo stesso singole e universali: un grande valore. Ho sempre creduto nell’umanesimo, ispirandomi a grandi personalità, come Dante e Galileo, che lungo la propria strada lo declinarono nella spiritualità e nella scienza. Senza un umanesimo saldo non si può vivere, e io ne ho fatto il più fedele amico della mia anima: da esso ho cercato di trarre la mia idea di capitalismo umanistico, e poi, ripensando ai cieli stellati della mia infanzia, l’idea di umanesimo universale. Da qualche tempo, in questo anno 2020, la nostra vita è stata affiancata da un compagno di viaggio imprevisto e non voluto, che sotto la forma di un virus pandemico si aggira per il pianeta causando dolore al corpo e allo spirito delle persone con un andamento imprevedibile ed estenuante, ora lento e ora accelerato, ora mite e ora crudele, nell’alternanza di speranze intraviste e subito deluse. Sembra il frutto una lunga lotta tra biologia e terra. E sembra che, infine, lo stesso Creato ci abbia chiesto aiuto. Rispondere è un imperativo morale, e io penso a una sorta di nuovo contratto sociale con il Creato. So che il contratto sociale è un’idea antica, ma quello che immagino è nuovo perché non riguarda soltanto le persone umane, ma include anche ogni altro elemento del Creato. I lontani monti, i boschi profondi e ombrosi, i mari immensi e inquieti, i cieli azzurri e stellati sotto ai quali animali e piante vivono in costante armonia. Insieme alle persone umane, essi sono fattori integrali del nuovo contratto. Insieme rappresentano, per me, un ambiente sacro e incantevole: qui e ora, un paradiso terrestre. Già, ultimamente abbiamo un po’ trascurato regole naturali che per lungo tempo erano state fonte di vita genuina e vera. E, se guardiamo nei nostri cuori con il coraggio della verità, se, in accordo con Kant, alziamo gli occhi al cielo sopra di noi e interroghiamo la legge morale dentro di noi, riconosceremo di esser stati “figli prodighi”. Allora, come in una corale confessione pubblica che ci coinvolge davvero in tanti, riconosceremo che se il Creato oggi ci chiede aiuto è perché anche noi siamo responsabili delle sue pene. Pensiamo ai nostri figli, alle generazioni future; pensiamo al mondo che riceveranno in eredità; pensiamo al retaggio del passato, senza il quale, come insegnano i filosofi, non vi è futuro. Senza memoria come potremmo avviarci per le strade sicure della giustizia morale? Verso i giovani siamo debitori, mi sembra, di un tempo che abbiamo loro sottratto e delle speranze che seguono agli ideali. Per questo immagino il nuovo contratto sociale con il Creato, perché vorrei che i figli degli uomini di oggi possano avere la possibilità di tornare a vivere in un pianeta dove gli animali, le piante, le acque, ritrovino tempo e luogo per rigenerarsi secondo natura, con quei ritmi larghi e sereni che hanno segnato per millenni la storia umana. C’è da frenare i deserti, da ridare ossigeno e frescura al pianeta. Mi piace sognare, con timore amorevole, che le generazioni future potranno vivere là dove riconosceranno la loro patria, che avranno il mondo intero come scelta libera, che sapranno vedere nelle migrazioni delle genti opportunità piuttosto che pericoli, che impareranno di nuovo che riparazione e riuso degli oggetti debbono prevalere sulla tentazione dello scarto... Mi piace sognare che vivranno Stato e leggi non come obblighi imposti, ma come strumenti di vita civile da rispettare secondo giustizia; che per loro tecnologia e umanità saranno sorelle amabili, che da loro ogni angolo del pianeta sarà considerato patrimonio di tutti e di ciascuno. E infine mi piace pensare che, come Adriano Imperatore, essi sapranno che i libri sono i “granai dell’anima”. E saranno felici. Ecco il contratto sociale che mi piacerebbe stipulare col Creato. Ecco l’aiuto che sento necessario dare a una realtà che intuisco “custode” premurosa del nostro cammino.
Brunello Cucinelli
È suggestivo, caro e illustre amico, il rovesciamento di concetti e di ruoli che lei realizza incitandoci a pensare il Creato non solo e non tanto come bene immenso e vero e come «casa comune» da custodire, ma anche come grande e immenso custode collettivo della vita umana e di ogni altra vita. È vera l’una e l’altra cosa, credo. Siamo custodi e siamo custoditi. Io credo dentro un disegno provvidenziale che non ci assolve dal fare liberamente e sino in fondo la nostra parte verso noi stessi e verso il Creato. E penso, quanto lei, che possiamo essere ancora, come in momenti di più naturale comprensione del nostro posto nell’universo, “contraenti” di un patto fatto di buona fede e buone azioni tra di noi e con la Terra che – ci ricorda papa Francesco nella Laudato si’ – «ci precede e ci è stata data» come straordinaria corresponsabilità perché «noi non siamo Dio». Lei lo dice alla sua maniera, con passione e profondità, da uomo di impresa e di pensiero qual è. Io seguo il filo dei suoi pensieri e del suo appello e la ringrazio, da cristiano semplice e, a mia volta, da piccolo e ammirato erede del grande umanesimo che ha costruito la nostra cultura e via via permeato le nostre società. Purtroppo fino alle vertigini e alle smemoratezze attuali, che anche lei evoca in questa sua lunga «lettera aperta» (che ho cercato di sintetizzare e spero di rispettare) indirizzata anche a me e ai lettori di “Avvenire”. Ma non siamo soltanto spericolati e smemorati, non tutti. E l’umanesimo che lei chiama «universale », e che io ho imparato a pensare «integrale», non è una sirena sugli scogli di un mare in tempesta, ma il vento amico, la bussola e la rotta. Possono spronarci e rincuorarci sentimenti e ragionamenti forti come la serena consapevolezza di ciò che dobbiamo ai nostri figli e alle nostre figlie a cui lei dà voce. E mi piace che in trasparenza queste sue parole lascino vedere ciò che le giovani generazioni debbono a se stesse e alla storia di cui sono frutto e continuazione, qui e ora, nel Creato, cioè – dico alla mia maniera – in questo mondo vivente come il suo Autore. Tale duplice consapevolezza è parte essenziale della custodia che dobbiamo esercitare gli uni verso gli altri. Senza di essa, senza i figli e con il tradimento e la mortificazione del Creato, non c’è speranza e non c’è futuro. Quel futuro che i giovani sono, che agli adulti è dato di generare e ai vecchi di illuminare. Custodi, dunque, e custoditi. E questo mi fa tornare in mente la domanda irriverente e amara di Giovenale: « Quis custodiet custodes? ». Chi custodisce i custodi? La risposta che ci accomuna è: nessuno mai da solo, perché nessuno basta a se stesso e ognuno è responsabile della vita. Di tutta la vita.