Cosa un padre arriva a fare
venerdì 19 agosto 2022

C’erano un padre e un figlio, umbri, a Senigallia, nelle Marche, in vacanza. Giornate torride, la spiaggia gremita, davanti il blu quieto dell’Adriatico. Poteva essere una bella vacanza. Ma il ragazzo, 23 anni, era malato di depressione: di tutte le malattie la più subdola, invisibile a ogni lastra, a ogni esame. Tuttavia, a volte, forte: come una mano che si impadronisca del timone di una barca e la distolga dalla rotta, o addirittura la spinga inesorabilmente sugli scogli.

Dunque il ragazzo ieri aveva litigato con il padre. Magari una cosa da poco, ma nei pensieri di un depresso ogni goccia può fare traboccare il vaso. Insomma risulta, dalle indagini della Polizia, che il ventenne arrabbiato ha preso la porta del residence ed è uscito di corsa, sbattendosela alle spalle. Il padre, 64 anni, gli è corso dietro. Con il cuore che nel petto s’impennava di paura. Dove andava quel figlio? Era ormai notte.

Nel buio il passo rapido del ragazzo, certo della meta, e quello affannato del padre, che fatica a stargli dietro. (Quando tutto va bene, un figlio a 23 anni è un uomo, studia o lavora magari lontano da casa, ha gli amici, la ragazza, dai suoi passa magari la domenica, a lasciare a mamma le camicie da stirare. Quando tutto va bene i genitori capiscono che devono tirarsi indietro, e non offendersi se lui non telefona spesso. È giovane. Padre e madre sono l’infanzia, e un affetto profondo, ma la vita a vent’anni preme, urge, ogni giorno).

Quando va tutto bene. Se quel figlio però si ammala, se sotto ai tuoi occhi subisce un’oscura metamorfosi, sta chiuso nella sua stanza, non vede nessuno o magari nemmeno si alza al mattino, allora per un padre e una madre è come se tornasse bambino. Non sa più badare a sé, stenta a lavarsi, o dorme, dorme tutto il giorno, come quando era appena nato. Allora si va da un medico. La terapia è lenta, il paziente non migliora. Ci si chiede, tormentandosi, cosa è stato, di chi è la colpa, se un adolescente sorridente ora è trasfigurato. Un agosto bollente.

Andiamo in vacanza. Al mare. Da bambino, a lui piaceva tanto. Forse è lo stesso paese dei suoi primi castelli di sabbia? Ma nemmeno il mare scuote il figlio dalla sua malinconia. (È come una prigione, che ci si porta dietro). E dunque nella notte quel padre rincorre a fatica il suo ragazzo per le strade di Senigallia.

Attorno la gente nei locali mangia, beve, ride. Le due ombre passano veloci. Il figlio sa dove andare. La ferrovia corre poco lontano, l’ha vista dalla finestra. Una scarpata, una barriera di metallo, non alta: basta un salto. Ed è sui binari, scintillanti e infiniti nella luce dei lampioni – come una misteriosa strada. Il padre – il cuore nel suo petto ora è impazzito – s’arrampica ansimando, scavalca a fatica la barriera. Grida, quasi afferra per le spalle il ragazzo. Quel nome per vent’anni ripetuto, 'Andrea fai i compiti, Andrea vai a giocare, Andrea vieni a tavola... 'Andrea!', urlato, ora, con disperazione. Lui è di pochi metri avanti, la malattia lo soggioga. Se vede i fari del merci in arrivo da Bologna, non si muove.

Non è così veloce un merci, potrebbe scappare. Ma no, i fari si avvicinano, il fragore delle ruote già è assordante. Il padre si butta sul figlio, a strapparlo dai binari. Sa che mancano pochi secondi: ma non calcola, non si ferma. L’impeto di salvare il figlio è più forte. La morte se li prende tutti e due, in un istante. Chi arriva tace, attonito. Fin dove arriva un padre. Nell’ultimo attimo, il locomotore ormai addosso, l’estremo tentativo, il tuffo sui binari, a strappare alla morte.

Sapendo di morire egli stesso. Amava quel figlio più della sua vita. Forse proprio perché si era ammalato ed era tornato incapace, fragile. E allora l’antico legame era rinato dal profondo: prendi le medicine, lavati, vai a letto... Infine un urlo: 'Andrea!' Un padre, non abbandona il suo bambino.

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