Caro direttore,
l’autonomia differenziata è «il fantasma che si aggira nel Parlamento appena eletto», scriveva l’11 ottobre scorso Roberto Petrini su questo giornale. Sul tema, infatti, sta riprendendo il confronto tra posizioni che, su entrambi i fronti, spesso eludono la domanda di fondo: l’autonomia differenziata è coerente con la piena attuazione della legge Calderoli di attuazione del federalismo fiscale? Noi riteniamo di no.
Riteniamo anzi concreto il rischio che la differenziazione affossi definitivamente quel modello di federalismo cooperativo – in attesa di attuazione da ormai 13 anni – che si fonda sui princìpi di cooperazione, perequazione e solidarietà territoriale. La cooperazione dovrebbe significare coinvolgimento delle realtà territoriali su base paritaria e un perimetro chiaro di azione per Stato e autonomie; ma l’autonomia differenziata inasprisce la conflittualità tra livelli di governo e complica l’assetto istituzionale, già fin troppo confusionario, delle politiche pubbliche.
La Legge Calderoli subordina la devolution regionale al rafforzamento della funzione perequativa dello Stato, al quale spetta il compito di colmare gli squilibri tra territori nella dotazione di infrastrutture e nell’offerta di servizi. Ma quella funzione è andata via via indebolendosi e i divari sono aumentati. Solidarietà rimanda a una ripartizione delle risorse orientata al sostegno, ciclico o strutturale, delle realtà più svantaggiate; ma, le prime bozze delle intese contenevano più di un indizio della reale motivazione delle Regioni richiedenti: trattenere più risorse nei propri territori.
Non a caso le pre-intese del 2018 sono state bocciate dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, che ne ha denunciato il disancoraggio dalla legge Calderoli. I tentativi di legge quadro sono poi tutti naufragati. Ora che il nuovo Governo si appresta a riaprire il dossier, è utile chiarire un equivoco di fondo. L’obiettivo che condividiamo tutti è superare la “spesa storica”. Un criterio che danneggia i cittadini governati da amministratori inefficienti o che meno hanno speso per i servizi a causa di una sperequata distribuzione territoriale delle risorse.
Ma se questo è l’obiettivo, il punto debole dell’autonomia differenziata è proprio quello di assumere quel criterio a base del finanziamento delle funzioni da decentrare, ritardando la definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni: l’architrave di un nuovo sistema di distribuzione delle risorse che realmente valorizzerebbe la responsabilità contemplando gli obiettivi di efficienza e giustizia sociale.
Così facendo, invece, si cristallizzano i divari di cittadinanza tra territori, e si rinuncia all’obiettivo di un Paese più giusto in cui l’offerta di servizi pubblici essenziali (dall’asilo nido, al tempo pieno, dall’assistenza sociale al trasporto pubblico) continua a dipendere dalla residenza. Riprendere un’attuazione ordinata del federalismo fiscale – e il suo completamento è previsto dal Pnrr – dovrebbe essere l’obiettivo condiviso.
Nell’interesse nazionale, degli amministratori locali e dei cittadini, del Nord e del Sud. Procedere su questa strada, senza scorciatoie o (altri) strappi, priverebbe la classe dirigente, in primis quella meridionale, dell’alibi del centralismo avaro, utile per rivendicare più risorse e nascondere le inefficienze, che creano più danni dove i bisogni sono maggiori; un alibi che resisterebbe in un sistema di autonomie asimmetriche, a trazione nordista, incardinato nel nostro federalismo incompiuto. E il federalismo, quello vero, metterebbe davvero i cittadini, soprattutto quelli meridionali, nelle condizioni di valutare la qualità delle classi dirigenti locali.
Economista, direttore Svimez
Economista, Università della Basilicata e Svimez