Ma davvero prevedere la presenza di “soggetti del Terzo settore” nei consultori dove tra le altre decine di attività si certifica la volontà di ricorrere all’Ivg può interferire con la libertà delle donne o addirittura minacciare il “diritto” all’aborto, come si è sentito dire a proposito dell’emendamento al “decreto Pnrr” presentato da Fratelli d’Italia e approvato in Commissione Bilancio e ora passato alla Camera?
Se così fosse, allora dovremmo trarre la conclusione che la stessa Legge 194 che contiene norme in primis “sulla tutela sociale della maternità” e poi “sull’interruzione volontaria della gravidanza”, compie lo stesso misfatto. L’articolo 2 infatti prevede che i consultori «sulla base di appositi regolamenti o convenzioni, possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato».
Esattamente quanto ricalca l’emendamento inserito nell’articolo 44 del Quarto decreto per l’attuazione del Pnrr. Si può discutere certamente sulla forma, cioè sul fatto che una norma così foriera di polemiche (mutatis mutandis, quando è stata introdotta dalla Regione Piemonte ha provocato una coda velenosissima) sia stata inserita nelle pieghe di un provvedimento che parla di tutt’altro. Passando alla sostanza, però, è palese che tante delle contestazioni siano preconcette se non ideologiche.
I “soggetti del terzo settore” del cui “coinvolgimento” i consultori possono “avvalersi senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” non sono profittatori senza scrupoli, gente accanita, senza arte né parte e desiderosa di fare il lavaggio del cervello alle donne incinte, come li hanno dipinti ieri alcuni esponenti dell’opposizione e dei sindacati. Chi ha veramente a cuore l’autodeterminazione delle donne dovrebbe considerare che essa non è a senso unico: non riguarda cioè solo la libertà di abortire, ma anche quella di non abortire. Cioè di non subire, nel momento della decisione se diventare madre o rinunciarvi, le pressioni dell’insicurezza economica, dell’assenza di un compagno o di una famiglia, dei ricatti di un lavoro precario, della mancanza di sostegni che consentano di terminare gli studi.
Non dovrebbe fare paura la presenza – purché discreta, accogliente e non giudicante, su questo non c’è dubbio: colpevolizzare le donne non è mai la scelta giusta – di “soggetti” che possono, in parte o in tutto, eliminare, alleviare o contribuire a portare il peso di questi ostacoli, rendendo una decisione drammatica come l’aborto veramente libera. Le parole non bastano, è ovvio: in tantissimi casi servono sostegni concreti, reali, che possano fare la differenza per una donna in difficoltà. In altri casi è utile anche una mano tesa, uno sguardo che cambi la prospettiva. E allora, a chi fa paura l’autentica libertà delle donne?