Il Regno Unito sorprende, e questa volta di nuovo in positivo. Lo conoscevamo ormai come il Paese della Brexit – in buona parte un voto contro l’immigrazione dai Paesi della Ue definiti «periferici» –, di molte misure volte a limitare l’immigrazione, anche per ragioni familiari, e della determinazione nel voler deportare in Ruanda i richiedenti asilo arrivati via mare. Ora invece, nella campagna per la designazione del nuovo leader del Partito Conservatore e futuro Primo Ministro, dopo la caduta di Boris Johnson, prende sempre più corpo una notizia controcorrente: tra gli 11 candidati, la maggioranza – ben sei – hanno un’origine immigrata: volti e nomi non proprio coincidenti con lo stereotipo dell’identità british.
Tra loro l’ex cancelliere dello scacchiere Rishi Sunak, che appare favorito, figlio di immigrati indù provenienti dal Kenya, l’attuale cancelliere dello Scacchiere, ed ex rifugiato curdo iracheno, Nadhim Zahawi, e l’ex ministro della Salute, Sajid Javid, di origine pakistana. Quindi non si tratta di outsiders, ma di personalità con importanti incarichi governativi e prestigiosi percorsi politici. Che questo riguardi proprio i Tories, portatori di una linea dura sulla difesa dei confini e della sovranità nazionale, è ancora più interessante.
Il Partito Conservatore è diventato multietnico, come la società britannica. Non che i candidati con radici in lontani Paesi siano alfieri di un cambiamento di linea politica in materia d’immigrazione, per quel che è dato sapere. Sembrano anzi confermare il noto principio secondo cui i più acerrimi nemici degli ultimi sono i penultimi: molti immigrati degli scorsi decenni, avendo faticosamente conseguito qualche miglioramento socio-economico, ingrossano il fronte del rifiuto nei confronti dei nuovi arrivati. Ma siamo in un’epoca in cui in politica, come in vari altri ambiti sociali, si guarda molto a chi sono i protagonisti, al loro profilo identitario, alla loro appartenenza a determinati gruppi sociali, al di là del loro curriculum e delle loro proposte. Si guarda a quante donne, giovani, esponenti di minoranze di vario tipo occupano posizioni di vertice. Negli Stati Uniti d’America, dopo Obama, la scelta di Kamala Harris come vicepresidente a fianco a Biden ha interpretato questa tendenza. Si tende a pensare che la politica sia più in grado di rispecchiare e guidare il cambiamento della società se incorpora esponenti dei settori sociali finora sotto-rappresentati. Che valori di eguaglianza e giustizia avanzino se nei luoghi decisionali entrano rappresentanti di gruppi prima esclusi e marginali. Se quindi il partito che meglio custodisce e rappresenta la tradizione britannica agli occhi del mondo si accinge ad affrontare una competizione interna da cui ha buone probabilità di emergere un candidato di origine asiatica, indù o di fede musulmana, stiamo assistendo a un cambiamento non solo d’immagine e foriero d’implicazioni sostanziali.
La normalizzazione del cambiamento si coglie anche nelle reazioni della base elettorale conservatrice, che nei sondaggi appare poco o per nulla 'inquietata' dall’origine e dall’appartenenza religiosa dei candidati. La tradizione, prima imperiale e poi multiculturale del Regno Unito, ha preparato il terreno a questa evoluzione. Una relativa facilità di accesso alla cittadinanza (cinque anni di residenza, Ius soli per i figli d’immigrati con permesso a tempo indeterminato), una pluridecennale circolazione di personale pubblico proveniente dalle antiche colonie, un’apertura di lungo corso verso gli studenti, un’elasticità normativa che ha concesso margini di autonomia alle minoranze immigrate, hanno contribuito a costruire un Paese multietnico. L’indurimento degli ultimi decenni non ha ribaltato queste tendenze di lungo periodo, e oggi infatti esponenti delle minoranze competono per le supreme responsabilità politiche. L’Italia, purtroppo insidiata da propagande xenofobe, ha qualcosa da imparare da questa esperienza. Nonostante la miopia delle vecchie norme vigenti, abbiamo ormai circa due milioni di cittadini di origine immigrata (dato Istat), ma la loro visibilità nelle istituzioni pubbliche è limitatissima, anche a livello locale. Gli ambiti economico, accademico, giornalistico, televisivo, non sono molto più aperti. Speriamo non sia troppo lontano il giorno in cui i nuovi italiani anche da noi possano competere per la leadership di tutti i partiti, compresi quelli ostili agli immigrati.