Forse non molti ne conoscono la denominazione che ha assunto allo spirare del secolo scorso, ma tutti noi siamo incorsi almeno una volta in quel fallo cognitivo che, facendoci sopravvalutare le nostre conoscenze relativamente ad un determinato tema, ci induce a pronunciarci su di esso, supponendo di averne pienamente titolo. Dalla fine del secolo scorso questa distorsione autopercettiva ha preso il nome di Effetto Dunning Kruger (EDK), eponomi due psicologi statunitensi che nel 1999 pubblicarono un articolo con il quale portarono all’attenzione degli studiosi di settore il frequente fenomeno per cui soggetti inesperti o incompetenti in un determinato ambito ritengono comunque di avere cognizioni adeguate a esprimere fondate e interessanti considerazioni al riguardo.
Nonostante qualche mistificante vulgata dell’EDK, questa inconsapevolezza che ci induce a pronunciarci, anche con una cer-ta perentorietà, in materie delle quali non abbiamo un’adeguata conoscenza, non ha a che fare con il livello intellettivo o culturale. Fattori ambientali, sociali, relazionali ci sospingono letteralmente, nonostante lo scarso governo di una determinata materia, ad esprimere il nostro parere, che presumiamo significativo e condivisibile.
Ovviamente, la diffusione pervasiva dei social media costituisce una “tentazione” ulteriore ad interloquire su quasi tutto, con l’aggravante che i ritmi di questa comunicazione sollecitano quello che Daniel Kahneman chiama Sistema 1; quello, cioè, che presiede alle nostre risposte istintive e poco ponderate, non essendo ritmi compatibili con il Sistema 2, quello deputato alla riflessione e all’approfondimento critico. Se le cose stanno così, si spiegano senza difficoltà le banalizzazioni che problemi anche delicati subiscono nel network sociale creato dalla comunicazione via smartphone. Meno agevole è comprendere le ragioni che inducono i talkshow di approfondimento dei principali problemi di attualità ad invitare soggetti incompetenti rispetto al tema trattato.
Certo, talvolta ospitando il personaggio famoso si punta scopertamente ad aumentare l’audience; altre volte si vuole offrire l’occasione all’interlocutore, di cui quell’emittente in passato si è avvalsa per approfondire argomenti sui quali lo stesso era competente, di presentare il suo ultimo libro o il suo ultimo spettacolo o la sua ultima iniziativa. Forse, però, non si è lontano dal vero se si ritiene che il coinvolgimento nel confronto dialettico di soggetti incompetenti, ancorché non conosciutissimi, risponde anch’esso a strategie di marketing, sebbene meno immediatamente evidenti. L’incompetente quasi sempre semplifica sino alla banalizzazione, non coglie implicazioni e sfumature, ha un approccio di intransigente contrapposizione: si dimostra incapace, insomma, di un dialogo articolato e costruttivo. Si esprime spesso sbattendo perentoriamente il suo pugno verbale sul tavolo del dialogo.
Propizia lo scontro. Fatalmente, agli argomenti si sostituiscono le affermazioni perentorie, l’enfasi retorica, gli slogan, i punti esclamativi. La competizione ha sostituito la competenza, come ha scritto Valerio Magrelli. E nella competizione mediatica vince chi alza di più la tensione emotiva, chi aumenta i decibel, chi ingrandisce caratteri e titoli di stampa. Persino le agenzie delle previsioni meteorologiche per guadagnare, sgomitando, il proscenio dell’attenzione popolare fanno ricorso a titoloni allarmistici. Quando riguarda la cosa pubblica, il fenomeno in questione assume forse espressioni meno accentuate, ma di certo più deprimenti, tenuto conto dell’importanza del bene su cui si controverte.
Anche a voler tralasciare, per non cedere allo sconforto, la preoccupante capacità di mobilitazione che l’influencer di turno (modella, calciatore, attore, cantante) - in possesso di una popolarità inversamente proporzionale alla competenza - riesce ad ottenere su temi di particolare rilevanza sociale, assistiamo quotidianamente a patetiche comparsate mediatiche con le quali personaggi politici spesso del tutto ignari della materia su cui disquisiscono, recitano secondo copione la frasetta di circostanza con cui andrebbe risolto il problema del momento: uno stucchevole psittacismo da manuale. Non esistono precisazioni, condizionali, incertezze, concessioni al dissenso, oneste prospettazioni di controindicazioni, ammissioni di migliorabilità della soluzione proposta o di aspetti apprezzabili in quella avversata.
Si prospetta una realtà manichea impermeabile al dubbio. Eppure, per quanto ci si possa impegnare, nessuno riuscirà mai a dire o fare tutte le cose in modo giusto o tutte le cose in modo sbagliato. Quanto sarebbe più credibile un filogovernativo che ammettesse «la decisione presa dalla maggioranza necessita in effetti, come suggerisce la minoranza, di un ripensamento in punto di…» o un oppositore che ravvisasse nella tale iniziativa del governo alcuni aspetti senz’altro positivi. Sarebbero entrambi più creduti quando si trovassero a ostentare propri meriti o a denunciare altrui deficienze.
In questo confronto da stadio, invece, il dibattito pubblico scade a contesa, in cui prevale la prontezza nella battuta, la telegenìa, la rissosità verbale, l’incompetenza banalizzante spesso in sintonia con quella del telespettatore e del lettore, che quasi sempre ha in uggia la complessità e il dubbio. Problemi difficili hanno così risposte semplici e sbagliate. Qualcuno, parafrasando, penserà: “è la democrazia, bellezza!”. No, non è la democrazia, ma la sua degenerazione caricaturale: la “tifocrazia”. Ci si divide seguendo non la luce di una idea o di un ideale, ma la schiena di uno dei pifferai del momento.